I topi del Tevere


Una volta, con una ragazza che avevo quando avevo le ragazze, facemmo il gioco del “perché mi piaci tu”.
Consisteva nel fatto che io dovevo dire perché mi piaceva lei, pardon, perché ne ero così infinitamente innamorato, scherziamo?! In altro modo, dovevo tesserne le lodi.
Non sapevo da dove cazzo iniziare, a me piaceva per un unico, banale, semplicissimo motivo, l’unico motivo al mondo che porta un uomo a desiderare una donna: era una gnocca.
No, nessuna anima, alcuna energia, per nulla colpi allo stomaco, morsi di febbrile eccitamento. Nulla di tutto ciò, ma solo il fisico piacere di toccarla, annusarla, guardarla, baciarla, e tanto altro che si legge in altri blog che parlano di cose sporche, tipo quello di Valentina Maran.
Alfine lo sforzo di sopravvivenza mi portò a formulare tre o quattro frasi che a me non convincevano per nulla, ma, dev’essere stato il modo con cui le dissi, lei ne rimase stupefatta.
Era contenta come una bimba a cui regali un pony bianco. Vedeva la rappresentazione delle propria malizia da donna disegnata nelle parole che pronunciai. Non ricordo cosa dissi, ma di certo doveva essere una roba tipo “Mi piaci perché quando sorridi il mondo non ha più senso”, o anche “Ti amo perché c’è qualcosa di inspiegabile che mi porta a concentrarmi solo su di te”, e ancora “Ti desidero in ogni attimo della giornata”.
Cazzate!, di inspiegabile c’era solo il senso di quella discussione. Metapensiero!
Le avrei detto più volentieri che mi piaceva il modo con cui cercava con le mani le mie parti basse, o che morivo all’idea che fosse china su di me, o ancora che la sua pelle liscia e vellutata mi mandava su di giri, ma sai gli schiaffi ipocriti che sarebbero volati!? Perché rovinare tutto con la materia, meglio rimanere sul vago, sorrido, l’accenno di un sorriso e ci siamo guadagnati la pagnotta, ma anche la possibilità di dire “E tu, perché mi ami?”
“No, io no ti amo affatto”, avrei voluto mi rispondesse, così per ridere un po’, perché con la propria compagna sarebbe simpatico ridersela e prendersi poco sul serio. Macchè, da una donna cerchi autoironia?
Rispose qualcosa che faceva molto ridere, ma solo me purtroppo.
“Mi piaci da qui a qui”, fece, indicando il punto che va da sotto l’ombelico fino alla “zona rossa”. Ma come? Da li a li?, ma quel pezzo di corpo ce l’hanno tutti… mica solo io!
No, ma non solo per quello. Menomale, e per cosa ancora amore mio?
“Mi piace che porti le maniche delle maglie fin sopra le mani” sorride. Io la disprezzo.
Neanche le mani!, neanche le mani le piacciono, le vuole coperte… ma allora, ma allora, non le piaccio io, le piace la taglia delle magliette che decido di acquistare.
Bisogna amare tutto di una persona, come diceva Gaber, anche la taglia delle maglie che uno porta.
Ecco appunto, a volte dimentico le cose basilari della mia vita, tipo le conclusioni a cui giunsi dopo questo dialogo con la ragazza di quando avevo le ragazze. Dimentico di quanti sforzi abbia fatto per raggiungere i miei risultati, di quanta tacita sofferenza ho dovuto ingegnarmi ad ascoltare per essere l’uomo che sono. Per ricordare, talvolta, devo scoprire le ferite ancora aperte e battere un colpo per capire se sono ancora li, vive, sanguinanti, vecchie compagnie di notti insonni. In questi giorni ho riaperto delle ferite, le ho lasciate rosicchiare dai topi del Tevere mentre bevevo un mojto e poi me ne sono andato a casa a dormire.

G_

Caccia al nome

Cari tutti, è giunta l'ora di chiudere il "cantiere in corso" e inaugurare un nuovo blog. Intendo dire che, lasciando inalterati i contenuti attuali, ho intenzione di sostituire la grafica e la piattaforma google per acquistare un dominio mio. Il tutto entro settembre. La mia intenzione è quella di conferire al blog una nuova e più professionale veste grafica. In occasione di tutto ciò sto pensando (su suggerimento di molti lettori) di cambiare anche il titolo perchè, appunto, i "lavori in corso" possono dirsi terminati, e anche perchè a quanto pare "Parole in corso" fa schifo :). Alcuni di voi si sono proposti di aiutarmi in vari ruoli e ringrazio loro in anticipo per questo. Rinnovo dunque l'invito a voi tutti di mandarmi gli scritti depositati nei cassetti per condividerli insieme ai miei, ma prima di tutto chiederei di aiutarmi a scegliere il nuovo nome del blog. Sono certo che non si sprecheranno stravaganze e ironie, ma conto di trarre proprio da queste le idee migliori.Dunque apro con questo post la caccia al nome,sperando di vedere in poco tempo un elenco di proposte esilaranti.La mia prima è:- Inenarrabile (sarrebbe www.inenarrabile.-)Divertitevi.

La gravità


Quelli con lo scooterone a centoventi ovunque, spesso riversi a terra agli incroci, con le donne depilatissime, quasi levigate, e superabbronzate avvinghiate dietro che pensano per tutto il tempo “ammazza quant’è fico er ragazzo mio, ammazza quanto sò fica io... ammazza quanto semo fichi”. Forse non costruiscono la frase proprio in questo modo, ma teoricamente è questo il concetto.
Tu nell’Y10 verde sporca sei una merda. Bianco da far ridere i bambini che fanno i castelli di sabbia sul bagnasciuga, pieno di nei che la macchina che mappa i nei si rifiuterebbe di disegnare il catasto del tuo patrimonio tumorale benigno, magro e così poco allenato che non ti arruolerebbero neanche nei kamikaze, sempre con la fronte aggrottata, sempre a pensare, pensare, pensare. A chi piace più pensare? Pensare non piace più a nessuno, chissenefrega, è passato di moda.
Gli occhiali da sole semmai sono alla moda.
Quelli sullo scooterone con ragazza depilata al seguito, che probabilmente la si prende direttamente al concessionario che te la trovi già seduta sulla sella nel motosalone*, ti superano abbagliandoti con gli occhiali da sole a specchio a goccia. Anzi no, a specchio l’ha lei; lui l’ha affumicati o tutti neri. Anche lui è abbronzantissimo, guardaroba solo di camice biance, cinte e occhiali da sole. E Acqua di Giò (si scrive così?).
Quanto si spende in occhiali da sole? Troppo forse. Ora, non per fare l’africanista, che gli africanisti non li condivido neanche io, ma in Africa non possono avere neanche gli occhiali da vista e noi siamo pieni di occhiali da sole. Maccheccazzocenefotte. Forse meglio non vederci chiaro nella vita.
Che bei visi abbronzati che abbiamo. Ma tanto non arriveremo mai ad abbronzarci quanto gli africani. Loro il nero ce l’hanno nel DNA, a noi tocca fare la fila in auto per andare a Capocotta al mare ad aragostarci prima di imbrunirci. Ecco perché quelli dagli scooteroni parecchio grossi comprano degli scooteroni parecchio grossi. Per non fare la fila. E per trovare parcheggio. Per sbrigarsi a scendere in spiaggia e prendere tutto il sole che c’è.
Poi quelli degli scooteroni, abbronzantissimi e levigatissimi, quando scendono dallo scooterone sembrando tozzi, rozzi e tuffellari pure. Bah, di fondo sono tutti tufellari come categoria dello spirito** quelli così. Le loro abbronzate donne anche peggio. Abbronzate che sembrano sporche. Sono sporche come categoria dello spirito**.
Io ho delle cose lisce e levigate in casa, ma non la donna annessa alla sella della moto. Forse avrei dovuto comprarne uno nuovo e molto più grande di quello che ho io di scooter. Ma non volevo spenderci troppo, non volevo fregarmene un cazzo dello scooter se si graffia o se me lo fottono, voglio proprio vederlo quello che mi frega quel motorino, gli voglio fare i complimenti!
Forse avrei dovuto aumentare il peso dei bilancieri in palestra quando a quindici anni facevo le distensioni su panca orizzontale invece di guardare le mie coetanee che tanto, dovevo saperlo, non c’avrei mai fatto nulla. Per fortuna o purtroppo non so ancora. Ma quando caricavo pesi in palestra mi sentivo troppo idiota chè già si fa troppa fatica a contrastare la gravità a corpo libero, pensa se mi vado a caricare di tutto quell’altro fardello inutile. Distendermi su una panca orizzontale stretta e già sudata da altri e contare fino a dieci levate, con uno che ti sta dietro che devi stare attento a non strozzarti col bilanciere, è una cosa parecchio faticosa. Forse molto più faticosa che non avere una donna abbronzantissima.
Forse in questi giorni dovrei andare ad ustionarmi in spiaggia e poi indossare camicie banche e recarmi a Trastevere e attendere che accada qualcosa.
Ma la sera sono troppo stanco, e il giorno mi va di fare altro, ormai mi sono abituato a lavorare. Il lunedì mi sveglio tardi e almeno per un’oretta medito su come trascorrere l’intera settimana. Poi mi ritrovo a fine settimana che tutto è fatto così come appuntato sull’agendina rossa, ma io non me ne sono neanche accorto. E così il lunedì di nuovo, mi fermo un’ora, organizzo, faccio e non ricordo. E così finché la gravità smetterà di preoccuparmi.

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* Citazione necessaria, Rino Gaetano “Spendi, spandi, effendi” – a duecento c’è sempre una donna che ti aspetta, sdraiata sul cofano all’autosalone, e ti dice “prendimi maschiaccio libidinoso, coglione”.
** Citazione necessaria, Davide Fanigliulo in un dialogo tra amici – leccesi come categoria dello spirito.


G_

Ieri


Ieri,
ho cercato dell’altro oro tra la mia musica
mentre scorrevo le tue foto.

Di fronte a una di esse tutto si è fermato.
I soffi ignoti della stanza
hanno smesso di turbare
la fiamma della candela accesa,
il sonno di costringere
i miei occhi a chiudersi.

E hai preso vita tu.
I tuoi occhi per primi.
Hanno preso vita e mi hanno
guardato.

M’attendevano.


G_

Le piccole cose

Delle persone sono belle le piccole cose. C. per esempio era bellissima quando faceva le facce in webcam. In quei momenti M. avrebbe voluto morire per poter baciare quell’angolo di labbra che disegnavano l’f del violino. Erano bastate frasi come queste e quello stupidissimo giochino di scrivere le frasette al contrario sui post-it per creare quell’atmosfera ipnotizzante tra i due. Spesso le cose migliori nascono involontariamente.

Quando C. ed M. chattavano, quando si guardavano in webcam era tutto un altro mondo, un altro angolo di mondo da cui tutto era escluso.
Solo loro due, le loro risate, il loro modo romantico di sfottersi, gli occhi infinitamente dolci di lei, il suo sorriso, il suo visino, che era diventato “Vissino” per un errore di digitazione sulla tastiera.. “come in una canzone di Capossela” le disse lui una volta. E quella fu un’altra mossa incredibilmente azzeccata quanto involontaria. Sia l’errore della doppia esse, sia la cosa di Capossela.
“Dove ti piace essere baciata?” Le aveva chiesto M. durante una delle loro conversazioni, e lei garbatamente esclamò solo il suo nome, come a dire “..che domande fai?”. Bella l’ipocrisia femminea. Bello l’autoconvincimento a dover sembrare per forza esseri puri. “Poi potrebbe pensare che sono una puttana!”… “Mica starà pensando che sono grassa!?”… “A cosa stai pensando?”…

C - “Non mi guardare le mani che mi dà fastidio”…
M - “Ti dà fastidio o ti do fastidio?”
C - “Beh, certe volte mi dai anche un po’ fastidio”
M - “Come “anche un po’ fastidio”?... e perché non me lo hai detto prima?”
C - “Ma, non volevo farti stare male”
M - “E che ne sai tu quando e come farmi stare male?”
C - “Beh, se dici una cosa del genere alle persone uno si offende, penso, no?!.. è abbastanza normale”
M - “Ma perché devi per forza incanalare tutto dentro degli standard, le persone si offendono regolarmente…”
C - “Mio dio quanto sei pesante certe volte…”
M - “Ah!, pesante… dunque a volte sono pesante e a volte ti do fastidio… praticamente mi detesti!”
C - “Ma no, però se continui così ti mando a fanculo, sappi che ci sono altri uomini interessati a me”
M - “Non sarai mica un‘automobile vero!?, noooh mi sono messo con la mia automobile e non me ne ero neanche accorto… e in ogni caso tutti questi “interessati” sappiano che per il pagamento e la fatturazione devono passare da me! Eheh…”
C - “Ecco, ora mi dai anche della “puttana””.
M - “ahaha, sì, sei davvero una puttana, ecco ora l’ho detto!”
C - “Oddio!... io, ma io, io ti odio!”
M - “Odio anch’io te, piccola”
C - “E ma allora chi ci ha costretti a stare insieme!?”
M - “Beh, come dire, scopavamo e ad un certo punto tu hai preteso “qualcosa di più”…
C – “Io ho preteso..!? E tu quindi non avevi la minima intenzione di…?!”
M – “La minima intenzione, certo!”
C – “Non ti sfiorava nemmeno…”
M – “Non mi sfiorava lontanamente l’idea di instaurare una relazione costruttiva con te…”
C – “Ma sei uno stronzo…”
M – “Sono uno s-t-r-o-n-z-o-n-e… ahah come nel film di Fantozzi “Direttore, lei è uno s-t-r-o-n-z-o-n-e!””
C – “La prendi anche a ridere… ma non ci posso credere…”
M – “ Senti evita di piagnucolare e di rompermi i coglioni perché sta cosa qua dell’amore e del rapporto l’hai voluta tu ed io ti ho accontentata perché non riuscivo a dirti di no e quindi ho fatto pure troppo per te…”
C – “Troppo per me… !? certo che sei veramente una merda!”
M – “Scopiamo?”
C – “Ma sei pazzo?”
M – “No, hai appena detto che sono una merda…, preferisco merda a pazzo.”
C – “Non ci riesco a credere…”
M – “Dai su, Vissino mio, non fare così, sai che il nostro è un rapporto speciale…”
C – “Ora non cercare di sviare..”
M – “Piccola, ma quale sviare, è che i tuoi occhioni dolci mi fanno mancare le forze…e se guardo le tue labbra muoio per un tuo bacio…”
C – “Ora non mi guardare così. Sono arrabbiata, e sai che anche io non resisto quando mi guardi così…”
M – “E’ l’unico che posso rivolgerti, tesoro mio, il mio sguardo d’amore è solo per te…”
C – “Amore mio, vieni qui, stringimi, non litighiamo più…”
M – “No, non litighiamo mai più!”

G_

Dormiveglia


Non posso farci niente se i demoni del dormiveglia m’accompagnano poi per tutta la giornata, quei diavoli ostili che da ogni angolo della casa, della città, dalle finestre, dalle porte della mia rumorosissima casa mi osservano. Le loro bocche offrono soggiorno a lunghe lingue cenerose, furie urlanti il cui grido trapassa l’aria, pieno d’odio da riempire di terrore anche le più ripose pieghe dell’anima.
In qualsiasi stato emotivo, mentale o fisico io mi trovi, sono perfettamente in grado di indurre al mio corpo uno stadio intermedio tra il sonno e la veglia. Mi è sufficiente rilassare le membra di tutto il corpo fino a sentire un leggero brivido di freddo dietro la schiena che, scivolando giù per lo scroto, arriva e si ferma alla pancia. La pancia trattiene il brivido restando immobile per evitare respiri eccessivamente lunghi consentendo così al resto del corpo di sentirsi svincolato, separato dalla pancia che è il centro, il legame e che diventa un vuoto, un buco.
Poi le gambe. Sento che mi si staccano le gambe dal resto del corpo, che prendono a camminare da sole. Accompagno poi tutto con quella cosa bellissima che faccio sin da quando sono piccolo che è di perdere la messa a fuoco della vista. Divento quasi cieco pur vedendo. Vedo solo ombre e nessun contorno. Vedo i pixel degli oggetti. E così mi viene da pensare che siamo sistemi di pixel che si muovono autonomamente, noi non ci possiamo fare niente, noi non esistiamo. Esistono solo i pixel che compongono il nostro organismo principale che prende la forma chiamata “corpo umano”. Esso a seconda della fortuna del caso assume forme bellissime, meravigliose, come quelle di alcune donne, oppure forme orrende come nel mio caso. I pixel sono imprigionati in questa sovrastruttura creata da loro stessi secondo la quale devono necessariamente fare sistema anche qualora non si sopportino. Che stupidi questi nostri pixel.

Tuttavia questi stupidissimi pixel possono diventare creature tanto tenere quando piangono o sorridono; ma diventano cattivissimi e spietati quando serrano gli occhi in fessure terribili. Piano piano gli stupidissimi pixel si trasformano in demoni simili a quelli del dormiveglia.
I diavoli ostili del dormiveglia mi fanno diventare più stupido del solito, più stupido dei pixel di cui sono composto. Sono marci dentro, qualcosa di marcio da eliminare, recidere come gli spasmi della solitudine che cerco di superare con la velocità della macchina dei miei sogni di bambino.
Ho deciso di chiamarlo B. È lo spirito maligno ed ostile che da ogni angolo della casa, della città, dalle finestre e dalle porte mi osserva; la sua bocca offre soggiorno ad una lunga lingua cenerosa e glabra. Furia urlante, il cui grido trapassa l’aria, pieno d’odio da riempire di terrore anche le più ripose pieghe dell’anima. Non riesco davvero a risolvere i miei enigmi riguardo a tutte le creature fra le quali ho vissuto e vivo in dormiveglia, ma i demoni neri dalle mani rosse stanno diventando superbi: si stanno cibando dei miei pixel, lasciandomi diventare vecchio, rugoso, pallido e stanco. Devo riuscire a liberarmi da questo che non è un sogno, non è un incubo, non è la realtà, non è l’irrealtà. Devo tornare a vivere le mie ore assolate e consapevoli. Ma sono un sistema di pixel, demoni indiavolati almeno quanto i miei demoni del dormiveglia. I demoni del torpore venoso.
Ho svelato il mio segreto, finalmente l’ho svelato e mi duole come una scottatura che prende freddo, si drizzano i peli e si gela lo stomaco.
In dormiveglia le parole mi tornano alla mente ripetitive e tormentose. Dette o non dette, pronunciate appena o urlate, ogni suono, ogni sibilo mi sembra un urlo, un lamento sottile e dolorosissimo. I lamenti mi colpiscono come una bastonata ferisce una bestia indifesa, mani rosse e crudeli dei demoni mi stringono il cuore e non mi permettono di riordinare i peccati da cui vorrei lavare la mia coscienza.
B è una fra le prove più dure che nelle mie giornate devo affrontare. Il problema è rappresentato dal ripetersi di alcuni eventi maledettamente simili tra loro tanto da diventare assillanti. Tutto mi puzza di crema nivea e di piatti di vetro giallo, di preservativi durex e di parole dette a cazzo.
B. si diverte, capisco che gioca con me come chi legge i comportamenti altrui per farne scienza. B sfugge. Viene e poi se ne và. Poi torna, ma solo per riandarsene ancora, e solo, ancora una volta, mi ritrovo solo.
Ora sarei pronto a pungermi con uno spillo per risvegliare i sensi, fino anche a trovare il sangue. Ma mi lascio vivere da B. e forse è più semplice addormentarmi.
Ho sempre sonno.

G_

Suicidio



- Ciao M. come stai?
- Bene grazie G_
- L’hai fatto?
- Si, l’ho fatto.
- E allora?
- E allora nulla l’ho fatto e basta.
- E lui?
- Lui non ha mosso un pelo
- Ti sei ricordato di tutto?
- Si, certo, erano solo poche cose.
- E la macchina?
- La macchina è stata ritrovata.
- Gemma era li con te?
- Sì c’era anche lei, ma cosa vuoi ora?
- Cosa ha detto?
- Ha detto che era per il mio bene
- È rimasta tutto il tempo li con te?
- No, poi dopo qualche ora è andata via
- E sei rimasto da solo?
- Sì, solo!

La mattina del 25 maggio del ’95


La mattina del 25 maggio del ’95, riflettendo che da lì a quattro giorni sarebbe stato il mio compleanno, io e il mio fedele compagno di banco delle superiori a seguito di una veloce consultazione decidemmo che era quella l’occasione per farmi regalare da tutti i compagni di classe una bella chitarra acustica amplificata per il nostro gruppetto musicale.
Il gruppetto non era niente male, era semplicemente pessimo, ma la chitarra acustica ci serviva comunque per registrare e anche per soddisfare la sterile abitudine dell’uomo ad attaccarsi ai beni perituri di questo mondo.
La ragionieristica in quel caso era semplice: la mia classe era formata da 25 elementi, tolti me e Massimo, e qualche altro bastardo che si sarebbe rifiutato di farmi il regalo perché mi considerava a sua volta un bastardo, avremmo potuto contare su circa un duecentomila lire, senza neanche attingere dal mondo esterno e sconosciuto. Quella bella Ibanez nera che era in vetrina al negozietto accanto alla scuola stava per diventare mia. Senza troppi sforzi.
Già immaginavo il nuovissimo liuto nero a fare coppia con la già mia Yamaha rossa, ricevuta in dono dai miei qualche anno prima. Pensai che dovevo affrettarmi a comprare anche un altro poggiachitarra che potesse ospitare la nuova Ibanez in tutta la sua nerezza.
Neanche a farlo apposta quel giorno stesso mia madre mi chiese se volessi dare una piccola festa a casa.
“Luca, perché non inviti i tuoi compagni di scuola venerdì per festeggiare il tuo compleanno?”.
“Mamma, il mio compleanno è giovedì non venerdì”.
“Eh, sì, non ti fissare con sti dettagli!”
“Sti dettagli, mamma..!?”
“Vabbè comunque se ti va dimmelo per tempo così preparo dei panini, una teglia di pizzette, mando tuo padre a comprare aranciata e cocacola”.
Panini, pizzette, cocacola e aranciata? Vabbè… in ogni caso cedetti alla richiesta. La festa si faceva giovedì tanto in assenza di alcool il giorno dopo si poteva andare tranquillamente a scuola. Sì, e io avrei parlato della mia nuovissima Ibanez con tutti.
“Max, ma se la comprassimo prima?”
“Cosa?”
“Massimo, la chitarra, l’Ibanez.. come cosa!?”
“Quale Ibanez, Vecchio, cosa stai dicendo?”
“Sei veramente coglione!, l’Ibanez che dobbiamo “regalarmi” per il mio compleanno, ieri ne abbiamo parlato!”
“Scccch, non urlare, se no ci sentono”
“E ho capito non urlare; tu non ti dimenticare di tutto!”.
“Ragazzi, chi è che parla lì dietro… a chi è che non interessa la lezione su Seneca? Chi devo mandare a fare due chiacchiere dal Preside?...”
Sono sicuro che in assenza di soggezione si sarebbero alzati in venticinque per scappare via dalla lezione di letteratura latina. Ma tutti tacquero. Compresi me e Massimo.
“Vecchio, renditi conto che è una cazzata comprarla prima…”
“Ma chi ti ha dato i soldi finora?”
“Ancora nessuno… ma fidati, non ti preoccupare che tra oggi e domani li raccolgo tutti, ma tu già da oggi invita gli altri alla festa”.
“Ok ok.. ora scrivo un bigliettino e lo faccio girare tra i banchi mentre questa strana signora bionda chiacchiera di Senegal… ahah!”
“Ahaha, Seneca, Senegal…”

***
Il bigliettino iniziò a girare quel giorno stesso, all’ora di letteratura latina, a quella di chimica, a quelle di matematica no. E pollici in su si elevavano verso di me, verso la direzione in cui era il mio banco con me raggomitolato a testa bassa come sempre per simulare l’assenza. La “presenza assente”, era questo il mio modo di stare in classe al liceo.
Tutti a dire che era ok… col sorriso da hostess le femminucce, o quelle che dovevano essere delle femminucce, e ghigno appena accennato i maschietti, o quello che restava di quei puzzolenti segaioli.
Tutti a fare di sì col pollice alzato. Ventiquattro piccoli Arthur Fonzarelli, Ehy!
Rossella si era persino avvicinata al mio banco al cambio dell’ora chiedendomi:
“Vecchio che bello fai la festa giovedì.. posso portare anche Daniele?”
“Certo, come no, sono diecimila lire in più!”
“Vecchio certe volte sei proprio deficiente…”
Tuttavia alle 14.00, perché noi al liceo uscivamo tutti i giorni alle due, e non si sa perché non facevamo neanche ricreazione, quelli di fuoripaese disdissero l’impegno preso col pollice in su. Legittimati, erano a qualche chilometro da casa mia, senza macchina né moto, avrebbero dovuto rompere il coglioni ai genitori, che poi dovevano tornare a prenderli… poco male, dai una cinquantina di milalire in meno, come previsto. Massimo, che stratega quel mio amico.
Poi però, forse sarà stato il calo di zuccheri e la stanchezza accumulata per sei ore di farnulla in classe, ma anche altri m’inseguirono quasi fin sotto casa balbettando emmh ed eeehh “il mio ragazzo”, “mia zia”, “mia madre”, “interrogazione di storia”, “compito in classe di matematica”… ma venerdi abbiamo educazione fisica disegno e religione!
Non ho mai capito perché chiamiamo l’ora di religione “ora di religione”. Dovremmo chiamarla “ora di bigotteria”. Una volta durante l’ora di religione parlammo di cazzi e fiche. Ma ne parlammo in maniera innaturale, come se nessuno fosse dotato né di cazzi, né tantopiù di fiche.
Vabbè, in somma, forse dovevamo rettificare il tiro verso la Squire da centomila lire e abbandonare a malincuore l’idea dell’Ibanez nera.
“Oppure facciamo che io ci metto una cinquantamila lire che mi faccio dare dai miei e compriamo l’Ibanez sunburst da centocinquanta”.
“Centocinquanta cosa, Vecchio?”
“Se vabbè, Massimo, vaffanculo”.
Il budget a disposizione stentava ad avvicinarsi a quello sperato. Bisognava estendere l’invito a quelli delle altre classi.
“Chi? Gianluca Vecchio? Quel pezzo di merda!? Col cazzo che vengo alla sua festa!”. È stata pressocchè e in termini estremamente succinti la sensibilità comune nelle altre classi. Ero un ragazzino detestato.

***
Alla sera del 30 maggio 1995 mia madre aveva preparato l'iradiddio delle prelibatezze: panini, focacce, pizze, pizzette, dolci, tartine, tramezzini e quant’altro di peculiare delle festicciole tra ragazzini di quell'età.
Io avevo preparato le stanze per l'occasione: avevo messo in bellamostra la mia chitarra elettrica e pure quella classica; avevo incolonnato i CD di cui andavo più orgoglioso e i libri che non leggevo.
Mentre facevo tutto questo pensai che i miei compagni non sapevano nulla di me. Non conoscevano le mie passioni, i miei dolori, i miei oggetti, le mie capacità e neppure i miei limiti. Loro buttavano tutto questo complesso umano in un enorme e informe calderone di pregiudizi che dava la certezza a sentirsi superiori e consapevoli della persona che tutti i giorni avevano davanti, o dietro a quei banchi umidi e segnati dai colpi di panno delle bidelle.
Ricordo che m’incazzavo tantissimo perché ogni mattina i banchi erano sempre sporchi, ma non perché le bidelle non avessero fatto il loro dovere, ma perché lo avevano fatto male! Ed era come se non l'avessero fatto proprio perché pulivano i banchi con lo stesso straccio con cui prima avevano pulito la lavagna sporca di gesso. Quindi toglievano il gesso dalla lavagna e lo ricollocavano su tutti i banchi. Tranne che sulla cattedra, perché forse pulivano in successione prima la cattedra, poi la lavagna e infine i banchi. E allora noi tutti ipotizzavamo che facevano questo per fare bella figura con i professori e per fare un dispetto a noi ragazzi.

***
Alle ventietrenta di quel trentamaggio del 1995 a casa mia erano previste una trentina di persone e una chitarra acustica Ibanez nerissima e invece fino alle undici della sera rimanemmo intorno ad un tavolino sul balcone che dà su via Parini solo io, Massimo e Alessandro, un altro fedelissimo compagno e amico. Diciamo però che questa situazione non era propriamente una novità perché a prescindere dalla festa loro due ci sarebbero comunque stati a casa mia, come tutti i giorni.
Ciò che invece risultava strano era la presenza di tutto quel cibo da festicciole tristi sui tavoli in soggiorno e la mancanza di una Ibanez nera.
Gli altri miei compagni non vennero alla mia festa per quei pregiudizi di cui sopra e perchè fondamentalmente non gliene fregava un cazzo. Questo lo capii dal momento che, abitando io in pieno centro al mio paese, ne vidi passare alcuni per strada, anche abbastanza annoiati per la serata priva di iniziative, “…la solita serata infrasettimanale paesana, ci andiamo a prendere il panino alla Griglia da Piero?”.
“Ragazzi, ma non vi sembrano Rossella e Daniele quei due sul motorino?”
“Vero Vecchio, sono loro…”
“Ma Rossella mi aveva anche chiesto se potevano venire insieme…”
“Sì, e tu le hai detto che potevano passare in cassa a pagare”
“E vabbè ma era una battuta”
“Vecchio, per una battuta le persone si offendono”
“...”
“Moltiplicale per 25…”

***
Per me, Massimo e Alessandro invece non ci fu bisogno di spendere dei soldi e intossicarci in paninoteca, e non ci fu neanche bisogno di offenderci per le battute altrui”
Ricordo anche che la mia famiglia si assentò inspiegabilmente. Nessuno aveva il coraggio di venire a vedere come stavo, né di farsi un giro nell’areato soggiorno in cui ero con i miei due amici. Non perchè se ne dispiacevano troppo e non potevano sopportare vedermi triste, ma perchè non si sarebbero trattenuti dal ridere nel vedere quella imbarazzante situazione. Ebbi l'impressione di essere rimasto da solo. E da quel momento in poi quella sensazione non mi ha più abbandonato.
Ora, dopo tredici anni da quel 30 maggio de ‘95, penso che quando sei solo hai un mucchio di vantaggi; vero è che non devo fare file, non devi avvisare nessuno e non trovo mai il bagno occupato.
E ora mi godo la mia solitudine, identica a quella di tredici anni fa. Ho soltanto qualche chitarra in più da mostrare nella mia stanza; la mia Ibanez nera me la sono comprata. Io, sempre da solo.

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[Copiaincolla dal Blog Catastrofe Verticale] - 110 - Donne


Le donne, della cui dipendenza molti uomini vanno fieri, sono propriamente il Male, in quanto ci costringono, con le loro sudice armi, a concentrare le nostre risorse e i nostri sforzi sulla vacuità dei sentimenti e sulle debolezze a cui questi ci costringono.Non saranno mai abbastanza maledette, le donne, corresponsabili della sconcia perpetuazione della specie, e generatrici del dolore attraverso il desiderio.Chi canta la femmina cerca e vuole il male, cerca e vuole le torture del sentimento, i dolori della gelosia e del possesso, le assurdità del volere e volersi, le frustrazioni del coito.Ce ne accorgiamo, dopo l'orgasmo, quando scema ogni lirismo: finita la scarica, cosa può valere quel pezzo di carne nel letto? Abbiamo avuto ciò che cercavamo.Cosa possono valere le carezze, quando abbiamo superato la soglia del piacere, quando vorremmo solo stare da soli, o morire? Cosa possono valere le parole, sempre e sommamente stupide?Poi tutto ricomincia e noi torniamo gioiosi dai nostri carnefici, non perché valgano nulla per se stessi, ma perché cerchiamo ancora una volta la voluttà, l'umido.E il ciclo pietoso riprende: bisogno di scaricare, odio di se stessi, odio per quell'accidente della vita che ospitiamo nel letto.Tutto riprende, anche la nostra ipocrisia, senza la quale non potremmo mettere insieme il serraglio, senza la quale non riusciremmo ad entrare nelle grazie di questa o quella femmina, senza la quale non avremmo modo di esplorare bocche, ani e vagine.Riprende la faticosa messinscena, alternanza di bava e menzogne, erezioni e conversazioni. E confidiamo che lei non sappia, non si renda conto, e pensi di noi chissà quale falsità, o ci adori per qualità che non esistono se non come maschera, come traduzione dell'urlo dei nostri ormoni. I genitali si cercano e le anime credono di trovarsi, ironizzava Safranski.E allora capita questo, dopo aver scaricato, che avremmo voglia di prendere a schiaffi la nostra compagnia di letto, diventata all'improvviso un mostro dopo aver vestito i panni della dea; dopo essersi svuotati, svanisce ogni poesia.Solo il calcolo ci impedisce di essere onesti, e di sputare sull'oggetto della nostra libido; solo l'idea di poter sfruttare ancora una volta quel corpo ciesime dall'oltraggiare senza pietà questi ricettacoli di sperma e speranze, questi intercambiabili passatempi.E Dio solo sa quanto la semplice masturbazione, per lo meno negli effetti, possa agevolmente sostituire l'avvenenza già marcia delle forme e della carne.


Urlando


La viaggiatrice mi ha detto che stanotte lascia la città. Lascia quella città, di cui non ricordo il nome, che si trova a un solo passo da Roma forse due, ma tanto non importa perché resta irraggiungibile. È irraggiungibile per chi è coinvolto nel vortice dell’ingranaggio. Ingranaggio da cui nessuno è escluso, neppure l’asceta, neppure il mio amico Davide con le sue teorie del cazzo. Abbiamo fatto le tre sul messenger io e la viaggiatrice senza motivo, tutto tempo tolto alla coscienza e al sesso. Fare le tre sul messenger è come sbagliare a “scendere” a Burraco, ti sei solo distratto un attimo.
Lo so che è tutta colpa di questa mia velleità da scrittore. Ho iniziato a fare “esercizio di stile” sul messenger da tempo, salvando tutti i dialoghi, per poi trarne ispirazione. Finora però non mi hanno ispirato proprio un bel cazzo. Sono praticamente dei dialoghi già pronti quelli lì, già pronti e confezionati, non devo fare altro che darci una sistemata e copiare e incollare tutto su word. Però poi anch’io, che sono un uomo, immagino cose, e ne desidero altre. Mi innamoro delle mie stesse idee o di fotografie scannerizzate per i profili online, che in realtà sono dei database necrologici anch’essi già pronti, e dimentico che l’amore è in realtà un modo come un altro di dare forma alla speranza, alla solitudine, ai genitali, all'amor proprio.
Figurati se la viaggiatrice dopo tre ore di messenger s’inventa il coraggio di una fuga notturna per correre da me. Come se ci fosse qualcuno disposto a correre da me, con la playlist scelta apposta.
***
La viaggiatrice ha legato le sue codine alle tempie, pronte per l’oriente, ha dato due colpi di matita sotto gli occhi, pronti per farsi fessura preoccupante, poi col sorriso appena accennato, la stanchezza del viaggio, le braccia di donna con le linee blu delle vene scritte sotto la pelle sottile e bianca si è infilata in macchina.
La viaggiatrice ha indossato il kimono rosso e tormentoso, il rosso che ricorda il tango e che non nasconde nulla, neanche l’egoismo di desiderare. Non so perché ho sempre associato il tango al Giappone, forse perché sono ignorante fino all’anima.
La viaggiatrice è montata in macchina raccogliendo i pochi inutili pezzi di sé per riempirne lo zaino. Lo zaino? Che importa. Mica vorrà dormire a casa mia? Non sa neanche dove vivo, dov’è casa mia, dove sono localizzato, dove sono domiciliato.
La viaggiatrice mastica le “vivident” e urla ancora prima di dare fiato alle corde vocali. Provo a sentire cosa urla. Sta urlando il mio nome.
Ma io sento solo un lamento, il lamento dell’attesa. La sensazione è la stessa di quando fecero saltare in aria il barbiere sotto casa mia. Nel sonno iniziai a sentire voci che urlavano “dov’è stato, dov’è stato..?”. E io credetti che si stava dando la caccia ad un intruso nel palazzo. E invece era esplosa la bomba del pizzo sotto casa mia e io non me ne ero neanche accorto.
La viaggiatrice sta per far esplodere un’altra bomba. Quella dell’istinto e della inadeguatezza nell’assecondare le più infantili voglie.
La voglia che mi venne quella notte della bomba del pizzo fu di inseguire il ladro con la mia pistola finta e metterlo al muro fino all’arrivo delle guardie che se ne sarebbero occupate. Ma non c’era nessun manigoldo da inseguire, piuttosto c’era da correre e lasciare l’appartamento prima che le fiamme arrivassero fin dentro casa.
Prima che arrivino le fiamme nel mio letto devo scappare. Devo fuggire per non farmi trovare. Qui rischio che da un momento all’altro me la ritrovo ad urlare il mio nome per strada… a chiedere alla gente se mi conosce.. a chiedere agli avventori ubriachi delle strade che frequento anch’io tutte le notti. Tutte le notti tranne questa.
La viaggiatrice spinge sull’acceleratore. Fuma e mastica. Sogna. In silenzio. Urlando il mio nome.
***
La mattina dopo, come destata da un sogno di bambina, si è svegliata rannicchiata e dolorante nella sua automobile, senza nessuno che le tenesse la mano, senza carezze.
Un rincoglionimento astrale. Gli universi paralleli non si sono incontrati. Mai!, e poi la calma e la quiete delle giornate più piatte, i grigiori degli inverni inabissati, il cielo senza colori sono penetrati dentro di lei come conseguenza della sua stupida prova d’amore.
Un’eclissi al buio, le pareti della macchina spenta al lato della strada che ha addormentato la sua notte e il suo sogno. Il cielo e le stelle erano di un unico colore spento. Lui non era in nessun luogo in nessun momento e il mondo continuava a girare. Il sole sorgeva e tramontava lo stesso. C’era il passato, e c’era il futuro. Lui era fuggito come da promesse. La viaggiatrice lo ha cercato, era quello di una notte fa, quello di una vita fa, quello di un sogno fa, e un sogno è rimasto, pur sapendo. Urlando.

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In silenzio


Quella sera aveva preso lo zaino, messo dentro uno slip, la t-shirt con la bambola gialla, poi si era infilata il suo paio di jeans preferiti, aveva messo in bocca una vivident ed era uscita.
Cercando di fare il più silenziosamente possibile, era salita in macchina con la velocità di un gatto, aveva messo su una playlist tirata giù apposta per quel viaggio.
Correva da lui.
Chi è lui.
Lui. Un poeta, si diceva, un musicista… Gli avrebbe chiesto di suonare per lei… Gli avrebbe sussurrato “Stanotte non vado via…”
Mentre schiacciava l’acceleratore iniziava a pensare al suo volto, a come sarebbe stato vedersi… toccarsi… Si… voleva toccarlo, voleva accarezzarlo, assicurarsi che fosse vero…
Lui esisteva? Si domandava… poi accendeva una sigaretta, poi tirava due boccate, tirava su e giù il finestrino, con fare nervoso e preoccupato. Poi sospirava. Sorrideva. Diceva: “Sto facendo una delle cazzate più grosse della mia vita, e non me ne frega un cazzo”
Si, forse era felice, come mai da tanto, troppo ormai.
Era sicura di volerlo trovare, di volerlo cercare per tutta la città se fosse stato necessario, avrebbe urlato il suo nome, o chiesto a dei ragazzi ubriachi sotto casa sua…
Moriva dalla voglia di farci l’amore, e allo stesso tempo aveva paura. Paura che non fosse lui, paura che entrambi avessero sognato, avessero preso una di quelle botte di testa per colpa della solitudine e dell’incomprensione mistica che si diffondeva in quei giorni.
Sarebbe ripartita di lì a poco e non si sarebbe mai perdonata di non averlo visto… così… a due passi l’uno dall’altra e si sarebbero persi senza sapere, senza aver visto…
Voleva toccare il suo viso, tenerlo tra le mani, sentire la sua voce, incuriosita aveva continuato a domandarsi, a chiedersi, in quelle notti insonni, che voce avesse.
Voleva stringerlo, tenerlo con sé sul suo cuore, solo una notte. In silenzio anche, o con della musica, mentre lo avrebbe guardato addormentarsi, col cuore urlante e straboccante di follia e di entusiasmo.
Si. Quel frizzante, le bolle della vita; quelle mancavano. E lui per lei era tutto questo. Era un tonfo senza perché al cuore, un tuffo in mare aperto, da un’alta scogliera, guardare il sole e aprire gli occhi. Lei voleva la favola. E forse lui non lo era nemmeno la sua favola, ma lei non curante di tutto ciò che sarebbe stato, sentiva solo per la prima volta i battiti del suo cuore.
Aveva urlato fuori dal finestrino in autostrada… il suo nome… Lui l’aspettava, lo sentiva. Ma moriva dalla voglia di vedere il suo volto… sulle scale della sua casa, sulla porta.
Con occhi lucidi e semichiusi… si avvicinava a quel momento.


E una mattina all’improvviso, come dopo essersi destata da un sogno di bambina… si era svegliata con lui. Lui le teneva la mano, le accarezzava i capelli.
Un ricongiungimento astrale. Gli universi paralleli si erano incontrati. Più volte… e poi i terremoti e poi gli uragani, e poi i colori delle piogge autunnali, l’arcobaleno che non andava mai via, e i colori sciolti dentro di loro… un tocco, le labbra sfiorate e poi l’urto e lo scontro… la violenza del pianto e del sorriso, il sole e la luna finalmente nello stesso punto del cielo.
Un’eclissi al buio, un’infinità di elettricità in una stanza senza pareti… Il cielo e le stelle erano di un unico e accecante colore… Lui era dentro di lei e il mondo aveva smesso di girare… Il sole sorgeva e tramontava mille volte con lei e lui non voleva più tornare indietro. Non inseguiva più il passato. La cercava, era quella di una notte fa, quella di una vita fa, quella di un sogno fa… Lei… senza sapere. In silenzio.

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Al tavolo da Poker


Quando sei al tavolo da poker e, al secondo giro di mano
non hai ancora capito chi è il cretino,
vuol dire che il cretino sei tu.

Io non ho capito.
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Inenarrabile


Oggi ho fatto orario da "funzionario statale”: 10,30 - 15,00.
Per i miei colleghi nulla di nuovo. Le belle giornate e l’aria primaverile iniziano a svuotare gli uffici, e ad annebbiare le menti. Tutti bravi a lamentarsi del proprio lavoro, ma nessuno che scende più in piazza ad agitare bandiere rosse.
In mensa eravamo io, il tecnico del server e Lelio Grappucci (quello che sembra del KGB). Dopo pranzo sono tornato nella mia stanza per fumare un paio di sigarette, stranamente visto che non fumo mai prima delle cinquemezza, e il tecnico del server si è messo a giocare un po' al solitario di Windows. Per evitare di sentirmi troppo come il tecnico del server, anche perchè non ho server, me ne sono tornato a casa mia.
Tanto a casa mia faccio le stesse cose che farei in ufficio e magari mi corico anche un po' sul letto accanto al PC (Personal Computer, non Partito Comunista) e mi fumo delle sigarette leggermente più profumate.
Tuttosommato il riposino pomeridiano l’ho sempre trovato un costume da zagabroni (non esiste questo termine), ma in questi giorni mi va proprio di sdraiarmi mezz’ora sul letto dopo pranzo. Possibilmente da solo.
Da piccolo, e anche un po' da giovanotto, oltre a detestare il sonnellino pomeridiano, ho sempre sofferto spesso del fatto che la gente non capisse bene se scherzavo o se "dici davvero?!" In realtà, non lo capisco bene neanche io (scontato no!?). E allora mi trovavo in situazioni paradossali che, se scherzavo quelli se la prendevano veramente, e, se invece non scherzavo affatto, quelle non me la davano comunque.
Ora invece solo caos, scioperi, assenteismo, lassismo diffuso. Non c’è più luce. Magari iniziasse a piovere veramente forte fino a tutto il finesettimana compreso. Mi concentrerei per scrivere cose un po’ meglio, magari scrivo una mail a qualche amica lontana, che da un po’ sono scomparso dalla rete, non aggiorno il Blog, non accedo al messenger, non spammo su facebook, non cago nessuno… niente di niente che riguardi i terzi. Oppure mi dedicherei a suonare la chitarra, la suono da vent'anni, basta, non vi pare!? Magari invece andrei un po' sul messenger e scaricherei dei film e della musica da IDC++. Con la pioggia forte forte farei queste cose più leggerine e alla fine chiamerei qualcuno chiedendogli di passare da casa mia facendogli ampiamente capire che se viene si fuma bene. E berrei un po' di Grappa di Falangina se facesse un po’ più freddo. E quando fa freddo fa troppo freddo, e quando fa caldo fa troppo caldo, e quando fa tiepido, fa troppo tiepido. Che condanna essere delle persone e avere delle idee.
Forse di grappa avrei dovuto comprare quella di Moscato per emulare appieno il Presidente che avevo anni fa, ma l'ultima volta che ho emulato qualcuno mi sono sentito troppo idiota.
Quel presidente li mi era piaciuto subito, da quando una volta che era venuto al master a fare un seminario sull'AgroalimentareItaloEmilianComunista ho notato che era sporco, disordinato e puzzolente.
Non che mi piacciano quelli sporchi disordinati e puzzolenti, ma mi piaceva l’idea che ripetesse in continuazione il termine "inenarrabile" per ogni cosa che descriveva; era lui ad emulare me.
Mi piacciono quelli che dicono "inenarrabile". La prima volta lo sentii dire al mio amico Daniele Esposito. Daniele Esposito, in arte Gigasex, mio caro amico, dottore in filosofia, una volta, parlando dinonsocchè, pronunciò la parola "inenarrabile", accompagnandola, per enfatizzare l'inenarrabilità appunto, con un gesto della mano chiusa a paletta davanti a sé disegnando un immaginario semicerchio quasi a pennellare un inesistente muro. Risi ore.
Iniziavo a provarci gusto a spingermi la mattina da vialeetiopiasedici fino a viaguattaninove da quando qualcun'altro, oltre me, pronunciava spesso il termine "inenarrabile".
A questo punto mi verrebbe da dire delle cose auliche e poetiche, con un po' di pulp e parolacce che non guastano mai nel mezzo. Ma mi astengo. Per mille motivi. Uno di questi è che non riesco più a concentrarmi. Che aridità.
Ora con le forbicette che uso per l’erba ho decorato a bonsai una cimetta, e il resto me lo sono fumato. Mentre faccio questo rileggo tutto e penso che sarebbe carino postarlo.

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Deliri scritti male ventiquattro


ANCHE IL GIORNO, TALVOLTA, MI FA PAURA.

Il grigio acceso degli scenari che costeggiano ogni corsa in treno alle sette del mattino, quando l’anno è iniziato da appena pochi mesi, subisce il giusto ridimensionamento del sole. Si rischia di perdere l’armonia del susseguirsi dei colori. I viaggiatori sono tutti accecati.
Più che per l’intensità dei raggi, i loro occhi stanchi sembrano stizziti dalla scarsa resistenza, dovuta all’ora in cui si sono trovati costretti a salire sull’affaticato convoglio, che, con la stessa sfocatezza, cerca di accontentare ognuno, per quanto possibile. Il treno è cinico. Non fa nulla con adeguatezza. Ogni rumore è amplificato, e serve ad appesantire ancora di più gli odori di menta e caffè che si mescolano dentro e fuori ognuno di loro. L’aria in poco tempo diventa fitta e nauseabonda; tutto è estremamente sincero. Il treno ha pietà di loro solo quando la corsa si fa costante e liscia, tanto da sentire superfluo l’attrito con il terreno, tanto che il dormiveglia è governato dalla speranza che si allontani la prossima fermata.
Lo scenario, fuori, si fa sempre più interessante all’aumentare della lucidità dei passeggeri più esperti. Hanno capito come dare un valore all’esattezza dei colori, seguendo, paralleli, le geometrie cromatiche più interessanti. Sfide continue tra luminosità e buio, lentezza e velocità, sonno e veglia, alternanza continua di ampiezza e claustrofobia, di torpore e vigore; ogni trasformazione dà nuovi odori, fittizi, impercettibili, rapiti, vengono sostituiti dalla scia di giornale che l’impiegato aggiuntosi all’ultima fermata, incontentabile nella scelta del posto, ha lasciato. Regalo indesiderato, poiché ricorda il dovere.
Gli unici suoni riconoscibili, in lontananza, che accompagnano quelli tipici della corsa, sono le voci lucide di un gruppetto di controllori, legittimamente a riposo sulle poltrone che, pensiamo, non possano essere utilizzate anche da loro. Forse, in un altro momento, in cui gli occhi dei viaggiatori si fanno più vigili e critici, avrebbero scelto un’altra postazione, più riservata, per chiacchierare, prima della fine del loro turno di lavoro. Tutti con parlate differenti, i funzionari portano avanti dei chiarissimi commenti, circa, non si sa cosa, iniziati, chissà quando. In tale ambiente narcotizzato, sembra che ci siano sempre stati e che abbiano sempre parlato e, probabilmente, dicono la stessa cosa da tempo, a ripetizione, tipo il nastro della voce che annuncia le fermate in stazione, che inizi a credere che è un nastro registrato molto dopo aver smesso di credere alle favole. È facile assistere ad accesi dibattiti tra gente convinta che ci sia un qualche pover uomo, in qualche cunicolo delle pensiline sui binari, che scandisce notizie inutili o spesso scostanti, e quelli invece, che, con aria ragionevolmente superba e distaccata, chiariscono che le informazioni vengono pre-registrate.
È probabile che sia un’attrattiva, è probabile che non siano neanche dei controllori quelli seduti in quel vagone; a tratti qualcuno presta attenzione a quello che si dicono, ma la curiosità di approfondire le poche informazioni recepite viene immediatamente distratta dal dormiveglia.
Eppure il discorrere è singolare.
Cont. 1) – …oggi mi sento ancora sottopressione. Non focalizzo ancora gli eventi che ieri mi hanno spinto a seguire il mio istinto donante la pazzia. Sento che sto preparando la vendetta; sto cercando di rafforzarmi, levigo la mente col metallo proveniente da altri organi del mio corpo. Sento come dover ancora nascere, non mi sento bene. Avverto l’inutilità di una vita che se ne va, e sento le interiora di quel poveretto collassate sotto l’acciaio bruciato di questi posti qui tanto strani.
Cont. 2) – Io invece sento i flussi di fosforo al cervello, percorrono le ancestrali censure impartitemi da quelli che sono migliori di me.
Cont. 1) – Sai, li sento i tuoi getti di fosforo! Cercano di muoverti verso il cinismo!?
Cont. 2) – Sono cinico per ciò che è accaduto a quello che è finito sotto il treno l’altra mattina. Sono cinico per ciò che è accaduto a me contemporaneamente, mentre aspettavamo tutto quel tempo, lì, fermi sui binari, in aperta campagna. Sul momento, tanto dolore, ma ormai, ho imparato, si, credo di aver imparato a non soffrire…lo credi anche tu?
Cont. 1) – No, non ho pietà di lui. Non ho pietà neanche di te…tu osi troppo con la tua coscienza, vedrai che un giorno capirai ciò che ti dico…non si tratta di cinismo…forse era già morto, forse era un angelo, l’angelo cattivo proposto dai sogni in dormiveglia di quando non sono stanco, ma annoiato, e dormo per questo.
Sempre più cadenzato e sconnesso, il dialogo assume un comportamento fittizio. Quasi si possono udire i deliri destati dalla profondità del sonno di un giovane, che si agita al suo posto, da solo. Non si dà pace, dorme e sogna, forse è l’unico, forse sogna proprio perché è giovane. “ – Come possono parlare in questo modo, come possono esprimere tanto disinteresse per la vita, come possono essere tanto colti…non ho sentito nulla circa incidenti di questo genere ultimamente…non ne accadono da tempo ormai. Non sono i controllori, è a tavola che si parla così, è mio padre, probabilmente è lui che parla…è lui ad essere in fissa col cinismo e l’educazione, la coscienza e le verità che non sono ancora pronto a cogliere. Ma stranamente non vedo il blu delle mie mura, non sento l’odore delle mie piante e le solite urla del vicinato…farei meglio a tranquillizzarmi. Mi ronza ancora in testa ciò che mi ha detto lei…era cattivissima, e ora chi lo dice agli amici, chi lo dirà a tutti, non mi va di tradire tutta quell’invidia nei miei confronti, non mi va di aggiornare nuovamente le notizie circa me. Come faccio a descrivere quegli occhi, come posso spiegarlo. Ecco, vediamo, se provassi a immaginarli ci riuscirei, se cerco di provare ancora quelle sensazioni di quella notte potrei dire che gli occhi che mi hanno ucciso erano semichiusi. Semichiusi e castani, mi hanno privato del lieto fine, hanno trasformato tutto in delirio; non brillavano di pace, ma di lacrime, di cui non m’importava, non erano lacrime versate per me. Per quale ragione non mi preoccupano le lacrime, se non quelle versate per me. È evidente che l’ho fatto per vedere davvero quanta gente sarebbe pronta a ridere o a piangere per me; ma ora, che è tutto confuso e spento, che risposte mi do? Che finale devo imprimere alla mia storia? Quali conclusioni, ora che mi rendo conto che non avverto nulla? Erano le lacrime che mi imponevano l’abbandono dei miei tentativi di ristabilirmi all’interno di quella situazione che mi dava tanta serenità. Sono parallelo. Chiaramente vedo la soluzione del problema. Il problema non è dirlo, convincere che tanto fa lo stesso, il problema certamente non è tutta quell’odissea passata in una nottata di ubriachezza e amore, il problema sta negli spasmi del mio corpo che inducono stridio di denti, sta ancora nell’inebriante dolore delle ossa contorte in queste posizioni assurde che sto assumendo, il problema sta nel convincermi che ho soltanto allungato una piacevole agonia interiore, per lasciare ingrato spazio al pianto del corpo…ridatemi il mio corpo, non lo farò mai più; non provate pietà per me, è giusto ciò che dite, ma non fatelo udire a tutti. Che nessuno sappia! Come è potuto accadere? Non riesco a credere che un evento tanto irrilevante abbia potuto distorcere la mia percezione e comandarmi il suicidio. Non credo ai buoni uomini in divisa, non credo neanche a tali voci che chiamano il mio nome, non credo a lei che ora mi scongiura di pensare che era soltanto, tutto, frutto di un temporaneo stordimento. Non mi fate credere che sia proprio il momento, non tentate di portarmi a pensare che mi sto risvegliando, solo perché ho tanto sonno, e i fischi del simpatico convoglio stanno superando l’intensità dei miei pensieri…non pensate. Credete solo in quello che vi descrivo, quello che vi dico è solo la verità; vi posso spiegare con lucidità ciò che mi spinge a non sentirmi ancora del tutto sveglio, sto perdendo le coordinate di ciò mi sta intorno, non riconosco più i dettagli; non ho voglia d’indossare il mio solito soprabito, è troppo faticoso avvolgere la sciarpa così come faccio io. Poi toccherà ai guanti e dopo il freddo non avrà pietà di me e della mia dimenticanza. Ho dimenticato il copricapo, non ho nulla per coprirmi la testa…non ho nulla per difendermi da lei. Mi duole il capo; mi chiedo se ne ho mai avuto uno. Cambio di espressione, eppure penso di avere sempre la stessa. I miei sforzi sono vani. Non riesco a tastare il velluto, mi dà una strana sensazione d’inquietudine mattutina. Ricordo che quand’ero piccolo non riuscivo neanche ad indossarlo ché mi faceva sentire come se mi fossi fatto la pipì addosso. Temo la notte. Anche il giorno, talvolta, mi fa paura, ma certamente molto meno. Non per la luce che manca, ma perché di giorno divento stupido…mi colpisce la mia stupidità, ma godo dei suoi frutti, mi ricalca serenità, non il pensiero. Spesso, invece, ho paura degli escrementi; ne ho il timore poiché so che la loro visione potrebbe darmi nausea. È bella però questa paura, perché è incerta, enigmatica, espressa da verbi al condizionale. Non mi svegliate, per pietà, è tutto così incerto qui! Non mi svegliate, il biglietto è nel taschino della mia borsa se volete verificare la liceità della mia condizione di passeggero di questo treno. Parlate pure, ma lasciatemi smaltire la sbronza “.

Vola piccolo gabbiano


Vola piccolo gabbiano, vola sin dove si fondono celo e mare,
e vento e onde piangono e cantano l'accordo della nostalgia.
Vola nella mesta quiete dove il mare giace silente sino a quando
di te la volontà e la speme sconfiggeranno lo spazio infinito.
Vola piccolo gabbiano da colei che più di tutte ho amato
e in celo come un uccello è l'animo mio se presto saremo uniti.

--- Giordano Bruno

Io se fossi Dio di Giorgio Gaber - 1980



Io se fossi Dio
E io potrei anche esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a spiare
O meglio ancora a criticare, appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il cosiddetto uomo comune
Com'è noioso
Non commette mai peccati grossi
Non è mai intensamente peccaminoso.
Del resto poverino è troppo misero e meschino
E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto
Lui pensa che l'errore piccolino
Non lo veda o non lo conti affatto.
Per questo io se fossi Dio
Preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico
Dove si amava, e poi si odiava
E si ammazzava il nemico.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica stato a risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore.
Si, vabbè, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene
ed è per questo, per predicare il giusto
che io ogni tanto mando giù qualcuno
ma poi alla gente piace interpretare
e fa ancora più casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli errori di mio figlio
E specialmente sull'amore
Mi sarei spiegato un po' meglio.
Infatti voi uomini mortali per le cose banali
Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti
Ci avete proprio una bontà
Da vecchi un po' rincoglioniti.
Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate
E tutti che ostentate la vostra carità.
Per le foreste, per i delfini e i cani
Per le piantine e per i canarini
Un uomo oggi ha tanto amore di riserva
Che neanche se lo sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia rabbia più bestiale
Che mi fa male e che mi porta alla pazzia
È il vostro finto impegno
È la vostra ipocrisia.
Ce l'ho che per salvare la faccia
Per darsi un tono da cittadini giusti e umani
Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani
E tante altre attenzioni
Per handicappati sordomuti e nani.
E in queste grandi città
Che scoppiano nel caos e nella merda
Fa molto effetto un pezzettino d'erba
E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.
Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti
Che usate gli infelici con gran prosopopea
Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non sono brave persone
E dove cogli, cogli sempre bene.
Signori giornalisti, avete troppa sete
E non sapete approfittare della libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate
E in cambio pretendete
La libertà di scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questo mondo pieno di sgomento
Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo ammetto
La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli non vorrei ministri
Né gente di partito tra le palle
Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno questo gioco
Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso
Come la febbre e il tifo
E tutti quelli che fanno questo gioco
C' hanno certe facce
Che a vederle fanno schifo.
Io se fossi Dio dall'alto del mio trono
Direi che la politica è un mestiere osceno
E vorrei dire, mi pare a Platone
Che il politico è sempre meno filosofo
E sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle parole
E poi se le rigira come lui vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari imparentati
Non ho nessuna voglia di parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le indignazioni son cose da tromboni
Da guitti un po' stonati.
Quello che dite e fate
Quello che veramente siete
Non merita commenti, non se ne può parlare
Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.
Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli
Sarebbe come scendere ai vostri livelli
Un gioco così basso, così atroce
Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.
Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto
E mi dispiace ma non son proprio capace
Di tacere del tutto.
Ci son delle cose
Così tremende, luride e schifose
Che non è affatto strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere la mano.
Io se fossi Dio preferirei essere truffato
E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato
Preferirei la più tragica disgrazia
Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così schivi e riservati
Ed ora con la smania di essere popolari
Come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete anche capaci
Di metter persino la mamma in galera
Per la vostra carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche abbastanza normale
Che la giustizia si amministri male
Ma non si tratta solo
Di corruzioni vecchie e nuove
È proprio un elefante che non si muove
Che giustamente nasce
Sotto un segno zodiacale un po' pesante
E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la giustizia è una macchina infernale
È la follia, la perversione più totale
A meno che non si tratti di poveri ma brutti
Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.
[.]
Io se fossi Dio
Io direi come si fa a non essere incazzati
Che in ospedale si fa morir la gente
Accatastata tra gli sputi.
E intanto nel palazzo comunale
C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti
In modo tale che in questa messa in scena
Tutto si addolcisca, tutto si confonda
In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale
È una schifosa facciata immonda.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
[.]
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto come una macchia nera
Una specie di paura che forse è peggio della guerra
Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli invisibili avvoltoi
Dei pescecani che non si sazian mai
Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in questo momento
Son proprio loro il nostro sgomento.
Uomini seri e rispettati
Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati
Così sicuri dentro i loro imperi
Una carezza ai figli, una carezza al cane
Che se non guardi bene ti sembrano persone
Persone buone che quotidianamente
Ammazzano la gente con una tal freddezza
Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi terribili bubboni
Ormai son dentro le nostre istituzioni
E anzi, il marciume che ho citato
È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo complici oppure deficienti
Che questi delinquenti, queste ignobili carogne
Non nascondono neanche le loro vergogne
E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi
E mostrano sorridenti le maschere di cera
E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato
Perché la macchia nera
È lo Stato.
E allora io se fossi Dio
Direi che ci son tutte le premesse
Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.
Con una deliziosa indifferenza
E la mia solita distanza
Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente
Sprofondare lentamente nel niente.
Forse io come Dio, come Creatore
Queste cose non le dovrei nemmeno dire
Io come Padreterno non mi dovrei occupare
Né di violenza né di orrori né di guerra
Né di tutta l'idiozia di questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche Dio
Ha il proprio inferno
Che è questo amore eterno
Per gli uomini.

Lettere di amici [008] - A tutti coloro che - di Daniele Natale

A tutti coloro che
riducono il valore d’ogni scelta ad un calcolo necessario
vedono nella coerenza il riflesso dell’altrui fragilità
valutano un sentimento negato un’acerba vanità
s’illudono del possesso di una matura disillusione
riflettono narcisi le proprie ombre nell’altrui campo
annegano la poesia nell’inoppugnabile bisogno di pragmatismo
riempiono di vacua materia i vuoti dell’assenza di amore
si ammantano di oscuro affinché tutto in essi sia attratto e si perda
pagano l’altrui attenzione col pesante conio della congeniata cattiveria
credono nell’auto-conservazione come all’elettiva umana relazione
barricati nella profondità di un ineffabile dolore
ignorano ogni sforzo d’amore
Per quanto mi impegni i conti non tornano….
le convinzioni si sgretolano sotto la pressione delle fragilità sottaciute
le invidie fanno scempio delle loro stesse carni
maturità e saggezza si trasformano in aggressione
i sogni diventano incubi

l’ insaziabile implode
svuotandosi di tutto ma non dell’insoddisfazione!
DaniNatDani

Gira e basta


Ricordo il giorno preciso in cui hanno smesso di piacermi le giostre. Dovevo avere non più di cinqueseianni.
Ricordo che piansi per abitudine quando capii che ce ne stavamo tornando a casa e la serata alle giostre era terminata. Per farmi smettere mi misero di peso prendendomi da sotto le ascelle, che dolore, sul cavallo marrone scuro della giostra che gira e basta, sta poi a te trovare un buon motivo per divertirti.
Che delusione su quel cavallino di plastica marrone che girava e basta. Quel giorno non trovai davvero nessuna cosa divertente e pensai a quale sorta di idiota ero stato a desiderare quell'ultimo giro sulla giostra che gira e basta.
Iniziai a odiare anche l'omino dentro il gabbiotto dove si paga il biglietto per girare e basta. Ma che colpa ne hanno gli altri della nostra idiozia?


G_

La ricarica Postepay

Assopito dopo il pranzo, oggi intorno alle tre mi sono recato come da accordi con il mio sincero e simpatico gruppo di letterati alle poste del Tiburtino, via Palmiro Togliatti, le poste italiane. Con quattrocentodieci euro nella zip dello smanicato.
Dopo i portici di via Edoardo D’Onofrio c’è da attraversare lo stradone col controviale che ne fa da parcheggio. Proprio lì, ho aiutato una vecchina ad attraversare la strada. Mentre ero a braccetto con la povera anziana, mi sono trovato costretto a chiamare la polizia perché, proprio nel parcheggio, un drogato cercava di rubare una macchina. Non era la mia Y10, tuttavia ho avvertito le forze dell’ordine con una telefonata:
- 118 dica.
- Ah, no, scusi ho sbagliato.
Attacco. Richiamo.
- Polizia di stato, dica.
- Ah no, scusi, preferisco i colleghi carabinieri, mio nonno lo era, ho preferenze per questo, non per maleducazione.
- Nessun problema gentile signore, chiami i fratelli carabinieri, anzi, lo sa che faccio?, passo io la chiamata
- Grazie
- Non c’è nulla di cui ringraziare, dovere etico!
- Carabinieri, mi dica.
- Salve, scusi il disturbo, volevo segnalare il tentato furto di un’auto in via Palmiro Togliatti, nel parcheggio del controviale.
- Nel controviale o nel parcheggio?
- In entrambi, insomma, qui.
- Qui dove?
- In via Palmiro Togliatti.
- Comunista!
E ha messo giù.
Ho preso il coraggio a due mani e mi sono avvicinato al derubante lasciando momentaneamente la vecchia signora nel mezzo del parcheggio.
Ho srotolato dal rotolo di soldi una sola banconota da cinquanta euro e ho richiamato l’attenzione del giovane dissennato lasciandomi scivolare dalla tasca la banconota da euro cinquanta fingendo di perderla. Il drogantesi non smetterà di ringraziarmi, o forse si prenderà gioco di me, tuttavia, io ho pensato, ne comprerò qualche copia in meno dei nostri libri, però un uomo ha evitato la galera e un altro ha ancora la sua auto. Tutto con soli cinquanta euro. È conveniente la solidarietà.
Ho proseguito il mio percorso verso le poste del Tiburtino salutando gioiosamente persone a destra e anche a sinistra, e perfino al centro. Salutavo cordialmente proprio tutti.
Sono arrivato sino agli sportelli delle poste italiane e, prima di entrare, ho sentito le urla di due uomini che stavano per prendersi seriamente a botte lì fuori.
- Hai rubato tu le mie 70 euro.
- Ma cosa dici, anche io ho perso 70 euro proprio su quella sedia.
- Ah, si!?, ma allora chi è che ci ha derubati entrambi?
- Forse è stato lo sportellista …
- Si è vero, ho notato anche io che è un tipo losco.
- Si, losco, andiamolo a prenderlo.
E allora mi sono avvicinato ai signori chiedendo spiegazioni di quell’assurdo intrigo. Loro, ormai calmi, ricostruendo la storia, si sono accorti di aver preso assolutamente un abbaglio scaricando la colpa con lo sportellista delle poste italiane. I due quieti signori si sono accorti di aver semplicemente perso quel denaro inavvertitamente poco prima.
Hanno iniziato a piangere elencando tutte le sventure che si sarebbero abbattute sulle loro famiglie da quel momento in poi senza quelle settanta euro.
A quel punto io, ricordandomi di avere ancora trecentosessanta euro nella zip dello smanicato, ho pensato che, infondo, privarmene di altre centoquaranta non sarebbe stato poi un problema. Ne avrei comunque continuato a disporre di ben duecentoventi per comprare tante copie del nostro bel libro. Infondo i miei cari compagn.. scusate, amici del circoletto letterario sono tutte persone buone, comprenderanno.
- Signori cari, vi prego, placate il vostro pianto e la vostra sofferenza, non posso vedervi così.
- Come faremo come faremo…, continuavano a ripetere loro.
- Signori cari, ho qui parecchio denaro in più, potrei privarmene un po’ per voi. Voglio che le vostre famiglie non soffrano.
Increduli, quei signori mi hanno ringraziato per minuti interi e poi, stranamente, li ho visti correre via insieme nella stessa direzione ridendo. Mah!
In ogni caso, ho occupato uno spazio su uno dei quei tavolini tondi degli uffici postali delle poste italiane, e mi sono accorto di non avere la penna per compilare il modulo di ricarica postepay. A quel punto ho visto da lontano il punto vendita delle poste italiane, in cui spuntavano anche pacchi di penne.
- Scusi signore, dovrei acquistare una penna, devo compilare un modulo.
- Mi spiace signore, ne vendiamo solo in confezioni da 200.
- Ah si? E quanto costano?
- 100 euro.
C’ho riflettuto e ho pensato che non avevo altro da fare, dovevo comprare quelle penne per caricare la mia cavolo di postepay; dovevo comprare quei libri. E avevo con me ancora ben duecentoventi euro.
- Le compro.
- Cento euro
- Prego
- Grazie
- Di nulla
- Se ne vada!
Quel “se ne vada” mi è risultato un po’ strano, ma poi ho pensato che io so essere un tantino permaloso a volte. Sciocco.
Sono tornato al mio tavolino tondo degli uffici postali delle poste italiane e ho iniziato a compilare il modulo con una delle mie duecento penne.
Proprio in quel momento mi sono dovuto fermare perché l’ufficio si è svuotato in un baleno. Anche gli operatori dietro gli sportelli sono scappati via subito. Ma io non capivo perché.
Voltandomi ho visto due uomini con i passamontagna in testa e ho pensato che faceva ancora molto freddo. Ma poi mi sono accorto che avevano delle pistole in mano. E ho capito il motivo per cui erano tutti scappati.
- Hey tu!
- Dite a me? (sorridendo)
- Si tu, stupido idiota…
- Bè, talvolta forse si.
- Quanto hai in tasca, pezzo di ignorante.
- Ah, parlate dei miei soldi…
- Si e di cosa se no?!
- Allora, dovrei averne ancora centoventi, di euro
- E che cazzo ci devi fare, stronzo!?
- Dovrei…
- No no no.. li devi dare a noi.
- Ma perché scusate? Avete famiglie povere?
- No, però abbiamo le pistole cariche, ahahah
- Oddio, ho capito, voi siete i rapinatori delle poste italiane!?
- No, noi stiamo rapinando solo te!
Con violenza mi hanno tirato via dalle mani quelle centoventi euro e mi hanno intimato di andarmene via subito.
Io mi sono allontanato subito in direzione del mio ufficio, ho rifatto il vialone e il parcheggio della Palmiro Togliatti ritrovando la vecchia lì dove l’avevo lasciata e, mandandola a fanculo ho pensato che, qualche spicciolo dalla sua borsa poteva farmi comodo.
E allora le ho strappato la borsa, ho rovistato all’interno, ma era mezza vuota e, nel momento in cui stavo per rimandarla a fanculo, un carabiniere da me chiamato prima per la storia del furto dell’auto mi ha visto, fermato e arrestato.

G_

Lo devo a qualcuno

Oggi non dovevo essere qui

Ci sono venuto solo perché temevo
di non avere alcuna altra possibilità di rivederti.
Certo, sarebbe eccitante il pensiero di cercarti
per le vie e le ville della città,
nei giorni e nei mesi,
rischiando di ritrovarti solo quando
il ricordo sarà svanito.

Ma in tale trepidazione mi farei suggerire la strada
tentando di indovinare
gli odori che meglio aiutano il ricordo.
Oppure, più romanticamente, lasciarmi indicare
la strada dalla luce chiara,
evitare le ombre, l’oscurità, che nulla hanno a che fare con te.

La luce bianca e chiara della luna,
così ti ricordo.

In trepidazione aspetterei di scontrarmi in lontananza
col riflesso della luce bianca sulla pelle,
essa ospita i tuoi nei e i tuoi odori,
e riveste il tuo corpo,
i tuoi teneri muscoli di donna delicata,
i tuoi seni e le tue gambe.

La tua schiena,
rivestita a fatica da sempre più leggere, dunque dolorose vesti,
che quasi scompaiono se mi fermo a osservarti e immaginare.

Se fossi il tuo uomo mi incuriosirei ad ogni risveglio,
in trepidazione,
a indovinare le stoffe, nel colore e nella forma,
che completano tale splendore.

La camminata esatta,
i capelli legati sempre allo stesso modo sulla nuca,
due ciuffetti sparsi e disordinati lungo il collo che m’implorano di baciarti.
Nella trepidazione di incontrarti, un giorno, per caso,
o una notte, perché ci siamo cercati,
proprio quella trepidazione sei tu.

G_

Il dubbio, la conoscenza, l'amore


L'amore vuole che non ci si inchini all'inerzia del dubbio,
poiché il dubbio lo ucciderebbe.
L'amore, nemico del dubbio,
è l'antitesi della conoscenza
Dado

I Misteri - parte prima


Il venerdì santo, santo per cosa poi, dalle mie parti facciamo una lunga, noiosa, estenuante, controversa, ipocrita, sconosciuta, estranea, folcloristica, travolgente, toccante, struggente, imbarazzante, pagana, rivoltosa, scura, cupa e grigia e bigia, cadenzata, addormentata, sovrastata, sovrastante, mal sopportata, mal compresa, osservata, stralunata, incomprensibile, antica, ancestrale, diluita, rispettosa, regolata, crocifissa, maestosa, lungimirante, lamentosa, sovrana, coatta, coraggiosa, imperterrita, imperturbabile, processione con le statue rappresentanti la passione di Gesù il Cristo, re di Nazareth. Si dicono "I Misteri". Parte da chissadove e termina chissaquando. La conducono i parrocchiani della chiesa Madre insieme con i santissimi fedeli, limbo vitale della nostra Santa Chiesa. Se non ci fossero i fedeli, non ci sarebbe Chiesa. Se non ci fosse Stato non ci sarebbe lo Stato. Eppure che i fedeli, unità e allo stesso tempo moltitudine di esseri indispensabili all’esistenza della Chiesa, sono poverissimi, mentre Papa, cardinali e vescovi e arcivescovi (arciderbolina) sono straricchi pur non possedendo nulla. Posseggono solo la carità che applicano attraverso la questua degli sgherri manzoniani (i preti), che se la cavano, tuttavia non sguazzano nell’oro. Insomma, un po’ come lo Stato italiano. I governanti stanno bene e ottengono il rispetto attraverso le guardie, il popolo è in bilico tra la povertà e la rassegnazione spirituale, benché unica realtà indispensabile all’esistenza stessa della comunità. Siamo comparsari.
In somma, questa processione, che non si sa da dove parta e non si sa dove finisca, è in ogni caso suggestiva. La ricordo sin da quando ero piccolissimo. Non ne conservo in realtà un bellissimo ricordo, mi faceva piuttosto paura. Avevo paura di parecchie cose. Quasi di tutto. Anche se l’aspettavo con impazienza tanto che, quando mi disponevo al lato del violone del paese insieme alla moltitudine di concittadini, restavo in attesa un po’ sporto rispetto alla folla e attento ad avvertire il rumore di quelli che comunemente chiamiamo “tric trac” cioè una specie di marachella africana che fa un gran casino.
Ricordo che ciò che mi entusiasmava di più erano i primi oggetti che vedevo passare e dicevo sempre che un giorno da grande sarei stato io a portarli. Questi primi oggetti erano una croce non troppo grande in legno a cui erano appesi diversi arnesi quali un martello dei chiodi e altre diavolerie macabre da museo delle torture. Mio padre o mia madre o entrambi mi spiegarono che quelli rappresentavano gli arnesi con i quali Gesù Cristo Re di Nazareth era stato torturato.. c’era anche una frusta mi sa. O no? E la spugna con la quale era stato abbeverato durante l’agonia. Mi piacevano quegli arnesi per diversi motivi. Il primo è che ho sempre avuto una particolare passione per la storia e suoi reperti archeologici. Anche durante le gite nei musei di solito ero sempre avanti avanti per ascoltare e vedere tutto per bene. Mi affascinavano. Ricordo anche che una volta andai veramente al museo delle torture, a Londra mi pare, e li mi beai dei modi che gli uomini avevano inventato per farsi del male, piano piano. Ma non bastava già l’illusione dell’amore? Vabbè comunque questi oggetti mi facevano impazzire anche per il gusto sadico della tortura inflitta ad un mio simile, anche se, quando mi ritornava alla mente che l’inflitto era stato Gesù Cristo il Nazareno, tutto mi s’intristiva e iniziavo anche ad avere paura. Era forse proprio questo l’effetto che gli arnesi del terrore dovevano muovere nei fedeli al lato della strada ad attendere la processione: una prima forma di terrore per ciò che avrebbero visto da li a poco.
La paura iniziava e proprio nel momento in cui passava la croce con gli arnesi della paura e della morte e del terrore ti sfilavano accanto scintillando nella ruggine nella loro immensa cattiveria e oscurità. Li immaginavo con il sangue del Messia incrostato.. In realtà quelli fermi al lato del violone durante la processione non erano solo fedeli, erano anche curiosi, paesani che si ritrovavano per caso in quella processione lugubre e attraente e ipnotizzante.
Ciò che aveva inizio da lì a poco era inenarrabile (e lo è tuttora, ma parliamo del passato).


[...]


G_

Lettere di amici [008] - Nella Pancia del drago volante - di Ettore Mirelli

Sono cinque mesi che ormai Annamaria vive quasi quotidianamente nella mia stanza, portandomi ogni volta un piccolo dono. Resta seduta o stesa sul letto, avvolta nella sua apparente assenza di pensieri, persa nella propria sfasatura temporale che cancella quasi tutti i ricordi del giorno prima, lei è immutata nel tempo che passa. Non so davvero quali assurdi meccanismi sono scattati nella sua mente per non ricordare un passato che l'avrebbe uccisa con la propria triste conclusione, così a livello inconscio aveva deciso di non ricordare più. Qualsiasi cosa brutta che potevo dirle o farle lasciava il tempo che trovava: qualche lacrima leggera, una risata isterica, una pausa di silenzio e tutto ritornava nella stessa immobilità di prima.Credevo nel grande destino dell'uomo fuori dal comune, credevo nella bellezza della terra con i propri migliaia di paesi da scoprire, credevo nel volo degli uccelli e nella bellezza delle loro ali piumate, credevo nelle donne, nel loro fascino, amavo le loro lusinghe, sfidavo le loro trappole. Credevo nella sana competizione dello spirito cameratista tra uomini forti e nobili, credevo nella creazione di un mondo nuovo dove ad agire sarebbe stato l'atto puro, compiuto con piena passione, nel compimento di una missione trascendente e nello stesso tempo atto d'amore fine a se stesso. In tutto questo avevo creduto ed avrei usato la penna come martello per abbattere le vecchie illusioni del passato, e come bacchetta incantata per costruire la dimora di un nuovo uomo, superiore rispetto alle necessità del vivere, irrazionale, sensista, padrone magico di tutti gli elementi, protagonista di tutte le leggende. Ma di questo uomo ora non riesco a vedere se non l'ombra perdersi nell'oscurità della mia stanza, ed è per quest'ombra che io vivo, riposto da parte per non nuocere col veleno della mia fantasia alle anime operose e diligenti che fanno ruggire i propri motori sull'asfalto.Annamaria è qui anche adesso che sto scrivendo, è sempre stata qui da quando ho iniziato a scrivere, e mi ha sempre guardato in silenzio col suo volto deformato di donna. Ogni pagina di questo romanzo è bagnata un poco del suo sguardo muto. Di tanto in tanto quando non mi sento in vena o sono troppo ubriaco per scrivere facciamo l'amore contorcendoci in una danza della sofferenza. Lei ricorda vagamente il passato lontano ma non quello prossimo, dimentica qualcosa di brutto e poi soffre senza sapere perchè. Il mio dolore invece è presente e bugiardo, lo contemplo con occhi estranei come ho sempre fatto con le cose che mi hanno riguardato. Telecomando il mio corpo disinteressandomi a volte delle sue avventure e forse per questo la mia storia mancherà di logica o continuità, ma scriverla mi aiuta a conoscere quel qualcuno che dovrei chiamare IO.Cara Annamaria probabilmente non sono diverso da te, la tua mente è una divoratrice di ricordi, la mia un ignavo, pallido fantasma che rifiuta se stesso, fugge altrove ogni volta che è chiamata a prendere una situazione in pugno, in orizzonti tanto belli che avrei il desiderio di chiamare poesia, ma sarebbe ormai stupido non ammettere che la radice ultima di queste esperienze, sia la mia malattia.



Non conosco la risposta a qualsiasi cazzo di domanda. Qualche saggio del passato consigliò di seguire solo strade che abbiano un cuore, viaggiando con audacia sul sentiero tracciate da esse e vivere ammirando, ammirando senza fiato il miracolo della vita. Io ho fatto così, ma che succede se la propria strada ha un cuore malato? Si finisce con lo sperimentare la più totale distruzione, e forse da questa rinascerà qualcosa, magari la grazia, volto solare della disperazione.Guardo il futuro, mi piacerebbe andare a Cuba, con i soldi che mi ha dato Annamaria sino ad ora, imbarcarmi su qualche nave mercantile a Napoli, Genova o Lisbona, non so. Il problema è che non riesco più a distinguere un progetto da un sogno, e forse è giusto che sia così.Ora basta! Sotto questo treno non ci sono più binari ed il deragliamento è ormai inevitabile, appena oltre il confine del CAOS, forse impazzirò definitivamente o forse no, forse voi che avete in mano questo libro sarete le uniche persone a conoscere la mia storia o forse no. Non voglio molto da voi, solo un pensiero ogni tanto, una immagine di me trasfigurata dalla vostra visione. Perchè? Perchè penso sia un bel modo di morire l'essere condannato a rinascere diviso in innumerevoli frammenti sparsi per il mondo, conficcati ciascuno nell'angolino buio della mente di qualche squilibrato avventuriero, o sotto forma di dubbio nella mente di qualche pacata persona serena.

Stappo una nuova bottiglia di vino ed Annamaria sorride senza riuscire a spiegarmi il perchè. Mano nella mano silenziosamente, ci tuffiamo nella notte, nel suo consueto bagno di luci bianche e rosse lungo il fiume d'asfalto. Lei sorride. ma ormai ho capito che non c'è bisogno di nessuna spiegazione, perchè.........perchè siamo poesia sottaciuta, morente sulle labbra, poesia discreta nella propria nobiltà, il suo silenzio è anima. Biondi alicarnassi traballanti ci scambiamo occhiate semaforiche superando strade ed incroci, immersi in un odore di sapone e piscio. Lei è impacchettata come una banana urbana ed odia la rotondità delle sue mani fasciate d'oro. Il mio sguardo precipita tra le cosce di una pubblicità, mentre i giornali svolazzano come grigie farfalle di carta piombata. Noi siamo cittadini del mondo sghignazzanti e silenziosi, studenti della vita animati e sciocchi, siamo vecchietti fragili attaccati al tempo attraverso l'intermittenza di un cellulare, ascoltando i nostri respiri lenti, Noi siamo poeti che toccano il grifoglio della calda carne butterata e sfiorano i propri sorrisi di seta candida. Fredde tubature sono i nostri violini ed una pioggia fredda la nostra plecente di indifferenza.

Inoltra questo libro a cinque amici che se no porta sfortuna




Ciao a tutti. Finalmente è uscita la raccolta di racconti in forma di mail in cui è contenuto anche il mio "Caro mio G_".

"Caro mio G_" è la storia di un uomo adulto che ritrova tra le sue mail una lettera spedita molti anni prima da una persona a lui molto vicina e attraveso la quale giunge a comprendere delle sfumature della propria coscienza solo a tratti sfiorate fino a quel momento.

Attraverso la metafora dei giochi della pinnacola, questo racconto diventa una lettura esilarante, a tratti commovente e un buon manuale per chi vuole imparare a giocare a Burraco.

La raccolta contiene altri bellissimi racconti di giovani scrittori che condividono questo progetto che presto ci coinvolgerà anche in incontri e presentazioni in varie città d'Italia.

Chi volesse giungere a tali appuntamenti preparato può acquistare il libro seguendo il link: http://www.lulu.com/content/2012801


Saluti, G_

Lettere di amici [007] - La condanna di carta - di Donz

La condanna di carta
Vivi creatura d’inchiostro
Per un sacrificio sei nata
Nero su bianco alla luce del sole

Il mio sacrificio
-------
Scrivi creatura umana
Da un lamento sei nata
Vita da vita

Il lamento materno
-------
Creatura umana scrive
Creatura d’inchiostro vive

Inizia la metamorfosi di una creatura umana che diventa creatura d’inchiostro, colpita dall’intervento divino di un Dio che voleva vivere, perciò diede vita ad altri esseri che volendo vivere diedero vita ad altri esseri che volendo vivere se la tennero stretta…
Crocifisso ad una parete
Sangue sgorga dalle mani ai piedi
Il volto sfoglia e rifoglia
Da rosa carnaceo a bianco cartaceo
Le gambe ripiegano sul corpo
Ora tutto è uno col volto

Di carta
Donz

Guido Guidaccio (Emidio) - parte terza


Insomma, la faccio breve giusto per sgombrare ogni dubbio, Emidio Antoci soffre per amore.
Appena fuori da casa di Emidio, terminato l’ultimo gradino della ripida rampa di scale, fuori da quella dimensione parallela tra cravatte e cianfrusaglie varie appese, lasciavo appese anche le mie vergogne per essere stato troppo debole alle tentazioni di Ester e del rhum e pera. Cercando un angolo di Trastevere in cui pisciare, non senza alcuna sorpresa mi ritrovai di fronte Corina, che, presa da un misto tra civetteria e vendetta, mi si avvicinava minacciosa quasi a cogliermi con le mani nel sacco. Fortunatamente Ester era rimasta a derubare Emidio di giarrettiere e cappellini simpatici. Quanto piace alle donne l’inutile.
Corina avvertiva in me uno strano sconvolgimento fisico e mentale e, nonostante il puzzo di sbronza, mi si era avvicinata all’orecchio sussurrandomi, Ora spero che tu abbia dei buoni motivi per spiegarmi perché Davide mi ha detto che eri morto!
E io, Cosa ci trovi di strano?
- Beh c’è di strano che invece sei vivo!
- Che ci fai qui a Roma, Corina? Non ti nauseava l’idea della grande città?
- Rispondimi perdio, per un attimo ho pensato che fossi morto per davvero ed invece è stato uno dei vostri cinici e irragionevoli giochini.
- Nessun giochino, Corina, nessun giochino…
- Voglio solo sapere perché diavolo vai in giro dicendo che sei morto!
- Oddio Corina, tu non sei mai riuscita a staccarti dall’idea di possedere un corpo e dalla zavorra della tua fisicità con la quale mi hai ingannato. Continui a credere che quelle con cui afferri gli oggetti siano davvero mani, che l’odore che senti sia trasportato dal vento, che gli uomini che baci siano tuoi, che l’amore che provi sia reale… ma senza il tuo corpo di cosa resti vestita? Io sono morto, per questo sono morto! Da te in poi mi sono guardato bene dal trasporto fisico confuso per amore…
- Amore?.. ora dici così perché sei ferito, perché ti ho abbandonato… mi sono arrivate le tue lettere…
- Quelle lettere non le hai mai comprese, sei troppo concentrata sulla tua esaltazione e sulla assillante conquista del genere umano… maschile! Però adesso lasciami andare, è stata una lunga notte, lunga e sorprendente avrei voglia di scrivere tutto prima di dimenticare.

Mentre cercavo di raggiungere la piazzetta in cui m’aspettava il motorino per riportarmi a casa, mi si palesava dinanzi ancora Emidio a braccetto con Ester. Accanto a me l’aria spostata dalle parole inarrestabili di Corina, pensavo che stesse per accadere qualcosa di mal padroneggiabile.
Emidio, come se non mi avesse mai visto prima, mi si era avvicinato prendendomi per il braccio e, rivolgendo una carezza a Corina, ci proponeva un ritratto in cambio di du spicci. Anche Ester sembrava sorprendente nel modo che aveva di interpretare la parte di chi non mi aveva mai visto prima. E allora chiesi ad Emidio di recitarmi lo stornello che il suo amico aveva scritto per lui. Lo stornello raccontava la storia del declino di Emidio dopo la morte della moglie ancora giovane… Emidio lo ripeteva come sempre d’un fiato, lasciando cogliere solo qualche parola qua e là, e soprattutto risuonava forte la frase finale: …nella soffitta logorata, vive solo e senza cuore un artista innamorato.
Raggiunsi lo sguardo di Corina, ammonendola per essersi lasciata amare, come l’unico sguardo davvero complice da quando ci conoscevamo. Diedi i miei spiccioli ad Emidio, sorrisi dolcemente ad Ester, che ricambiò quella dolcezza, e poi l’eccessiva complicità di chi mi era intorno mi amareggiò oltremodo e sfuggì loro, paralizzandoli.
Come se le vendette cancellassero le sofferenze, rimanevo incapace di comprendere dove Corina avesse trovato la forza e il coraggio di raggiungermi a Roma. Raggiungermi?... non importa. Più che qualcosa di ingiustificato c’era qualcosa di ingiusto nell’aver dato vita ad uno di quei rapporti senza significato, questo pensavo rientrando a casa in motorino. Lo scorrere della strada sotto le ruote mi stimolava i pensieri, risolvevo che con Corina era stata una di quelle esperienze in cui ciò che appare è solo ciò che ci convinciamo di vedere, una di quelle cose in cui il ti voglio bene è un’imposizione che colma le mancanze di tutta una vita, e che probabilmente Ester, per quell’ora nella soffitta logorata, era stata mia più di quanto non lo fosse stata Corina in tanto tempo.


G_


Emidio - parte prima: http://incorsoparole.blogspot.com/2008/02/guido-guidaccio-emidio-parte-prima.html


Emidio - parte seconda: http://incorsoparole.blogspot.com/2008/03/guido-guidaccio-emidio-parte-seconda.html