Mater

Ti conosco come la mia gabbia,
i miei no,
i rifiuti
e l’abbandono

Ti conosco come i miei errori,
tu, fonte di errori,
fonte di sogni,
come diceva il poeta

La terra aveva un figlio
La terra sperava in un suo figlio,
ma chi lo ha partorito
lo ha condannato,
condannato a sé
condannato attraverso uno sbaglio
d’amore

Non sono la tua appendice,
non il tuo soffio.
Ciò che ci lega è solo il passato contatto fisico terminato
nell’attimo del parto
Non sono la tua appendice,
soffio tenue di un’esistenza vissuta
come qualcun altro ha voluto

Insegnami l’equilibrio,
insegnami l’arte del distinguere
tra il bene e il male
Non m’imporre il giusto e lo sbagliato
Difendimi dal caldo e riparami dal freddo,
non mi dire: ”fa caldo!, fa freddo!”
Incuriosiscimi guardandoti
serena incuriosirti,
Dammi da guardare
Dio e l’Amore ad occhi chiusi,
non giurarmi fede
Dammi baci,
non promettermeli

E ora mi drogo,
mi confondo,
bevo e faccio sesso disordinato

Dimentico ciò che più conosco e
ciò che mi accompagnerà sempre
nella mia quotidianità

Tu, facendomi tuo a ogni costo,
hai intaccato il mio quotidiano,
il mio ogni giorno
Ogni fatica è maggiore perché
c’è tutto questo alle mie spalle.
Ogni fatica è doppia perché
provata da un uomo che,
al momento dell’energia e della festa d’infanzia,
ha sentito la pesantezza della noia,
quella del cinquantenne dietro
la scrivania del suo ufficio da impiegato,
aspettando i film della sera,
bestemmiando la propria vita
e quella degli altri,
chiudendo gli occhi e sperando
in un diverso stato dell’essere al risveglio,
essere sporco di altro plasma,
sporco di altra saliva e
di altro sperma.
Ogni fatica è troppo grande
da sopportare se dopotutto io
ti amo
e mi manchi
madre

G_

Promo raccolta che uscirà su Lulu.com

Esercizio etilico


Rimasero così, abbracciati come due innamorati.
Lei, la testa adagiata sulla spalla spigolosa di lui, tratteneva il respiro come si fa quando si ha paura di essere scoperti: da donna, non accettava di aver palesato il proprio amore e di aver ceduto alle morbide labbra di lui. Entrambi guardavano senza interesse il sole inghiottito dal mare, e lui si rammaricò della caducità delle azioni umane e capì che quel momento, intensamente bello, avrebbe riecheggiato con più intensa tristezza quando, dall’attimo dopo, sarebbe diventato un ricordo insieme a tutto il resto. La beatitudine di ciò che è assente.
E allora ripose un po’ di attenzione in quel tramonto e cercò di non fare nessun rumore nel timore di mettere in fuga quell’attimo.
Sorseggiavano vino e addentavano amore, il ché riportò alla mente dei due giovani innamorati le storie passate, rendendo tutto troppo scontato e mortale.
I due innamorati non sapevano nulla dell’amore così come non conoscevano il vero modo di osservare il mare che inghiottiva il sole nel calore l’uno dell’altro. Non conoscevano il mare, né il sole; non il cielo e né l’amore. Tutto era stupidamente concentrato nel sottile vestito di lei e nelle sue spalle scoperte, lisce. Non conoscevano il sapore della sabbia, né la grandezza dell’altura sulla quale si trovavano, non il vino che assaggiavano né il sangue che scorreva loro in corpo.
Lui sapeva che se avesse sofferto un po’, forse, avrebbe ricominciato a sentire veramente le emozioni e, se avesse smesso di provare quell’inutile sensazione di innamoramento, forse, sarebbe tornato a comporre e a credere ancora nell’arte, nelle note, nelle parole, nei colori, nei gesti, nelle azioni umane, così belle e così terribilmente complicate e sofferte. In quello stato di stravagante sensazione d’innamoramento, il suo cervello si inebetiva e il cuore pulsava solo per qualcosa di reale che aveva di fronte a sé, in carne ed ossa,… e ché carne... e quali ossa!
Con lei accanto la musica non era più musica, le note non più conosciute, le corde delle sue chitarre s’impolveravano e la tastiera della sua macchina da scrivere riprendeva l’originario colore nei punti in cui le sue dita cadevano più spesso.
Ogni cosa perdeva di valore mentre lei coniava splendore e la sua immagine, che rapiva tutti i sensi di lui, racchiudeva tutte le passioni e l’arte.
Era appagato. Falsamente appagato. Fisicamente appagato. Falsamente appagato.


G_

Devo piangere

Devo piangere.
Devo riuscire a piangere,
altrimenti che uomo lasciato sono?

Domani mattina,
se sarà mattino,
il risveglio sarà parecchio complesso.

Domani mi sveglierò senza più l’amore
e dovrò fare di tutto per ricordarmene.
Sono stanco di essere stanco.
Sono stanco di non chiamare le cose col proprio nome,
di non avere coraggio,
di non decidere.

Se non piango che uomo sono?

Provo ad ascoltare in cuffia le canzoni d’amore più tristi che ho
Per capire se almeno così mi emoziono.
Poi domani dovrò spiegare a chi mi interrogherà che non c’è più
e dovrò sembrare triste.

Anche questa volta non c’è più.
Che peccato, cristo!

dirò...

...e ancora,

Ancora una volta si scopre che non ne valeva la pena.
Io non ne valgo la pena.
Non faccio stare bene.

Non vado più bene.
La bilancia ha ceduto dal lato sbagliato,
ha ceduto dal lato dell’abbandono.

Le onde.
Le onde mi scorticheranno come colpi costanti...

Quanto vorrei che fosse davvero così.

E invece no.
Basta una giornata un po’ più luminosa,
e torno com’ero prima.

Solo, piacevolmente solo.

G_

Quindiciundiciduemiladue

1

Dopo l’ultimo saluto è successo di tutto.
Mefista sta del tutto scomparendo dalla mia vita dopo aver abbandonato volontariamente, quanto inspiegabilmente, il mio cuore.
Ora la vita accade con la solita piacevolissima alternanza di caldo e freddo, di normalità e di magia, di realtà e finzione. Un film, un sogno, l’illusione, il miracolo.
È di nuovo accaduto un miracolo. Dopo l’abbandono di Mefista, i miei occhi hanno incrociato quelli di Debita, accorgendosi gli uni degli altri. Scrutandosi.
“Questa volta sarà diverso”, mi dico, “mi sento più forte, sono allenato per affrontare la lotta dell’amore”. Tuttavia serbo per lei, Debita, la stessa tenerezza e le medesime paure che ogni volta coinvolgo. Spero di non commettere errori troppo gravi, e dunque, per il memento, la sento così come mi ha lasciato ieri sera: in piedi accanto alle uniche cabine telefoniche di questa piazza.

2

Dalle cabine esala un cattivo odore e sono frequentate da rom e tunisini che se vuoi avere dei problemi una sera basta che ci passi davanti e ci guardi dentro. Solo uno sguardo può bastare ad essere aggredito. Come con le donne, uno sguardo può bastare a comprometterti definitivamente.
Le cabine di piazza Garibaldi a Parma sono da sempre il punto di ritrovo di studenti e lavoratori che si danno la punta per uscire e andare a ballare, o per andare a fare l’aperitivo, o per andare a suonare la chitarra a casa di qualcuno con le bocce di vino nelle borse colorate delle ragazzotte mezze comuniste.
Il rito si ripete quasi tutte le sere. Finché un giorno non ci si è stancati di darsi appuntamenti davanti alle cabine. Le ragioni sono molteplici, forse troppa gente concentrata nello stesso luogo, o forse troppi tunisini incazzati. La routine resta comunque sempre quella: boccia di vino, chitarra, ragazzetta mezza comunista. Tormenti mesti. Le abitudini, in generale, sono sempre le stesse.

3

Ora vivo in un’altra città. Ci vivo da più di quattro anni. Ci vivo da quando ho capito che quelle domande e quelle perplessità che mi ponevo davanti a quelle cabine a Parma erano molto ben fondate. In ogni caso penso: meglio se restavano solo delle perplessità. Forse avrei fatto meglio a godere del nulla in cui vagavo.
A distanza di un anno da quella promessa di quel quindici undici duemiladue, mi rendo conto che proprio con quella promessa mi ero tradito. Avevo tradito la mia consapevolezza, avevo eluso la saggezza accumulata fino a quel momento attraverso gli abbandoni e le altre cazzate. A distanza di un anno da quella promessa di quel quindici undici duemiladue mi accorgo di aver rinunciato a preziosissimi momenti di libertà. Libertà di coscienza soprattutto, non libertà fisica. Ho ceduto. Ho visto degli occhi profondi, un pacchetto di Camel light, quelle che fumo anch’io, mi sono fatto convincere dalla falsa idea di condivisione con un altro essere e anche dall’idea di sentirmi un figo.
Non assecondare la mia promessa è stato come plasmare un vaso di cristallo, fragile, puro e prezioso, e scaraventarlo dall’ottavo piano di questo palazzo sulla tangenziale in cui vivo da quando sono a Roma. A distanza di anni da quella promessa mi rendo conto che non mi ero rispettato e realizzo che avevo solo anticipato un errore prima di commetterlo. Nel senso che avevo semplicemente predetto il mio errore.
A distanza di anni dalla mia previsione capisco che avevo interiorizzato una coscienza inesistente. Anche Debita è del tutto scomparsa dalla mia vita dopo aver abbandonato volontariamente, quanto inspiegabilmente, il mio cuore. E adesso la vita accade con la solita piacevolissima alternanza di caldo e freddo, di normalità e di magia, di realtà e finzione.. Ed automaticamente quelle cabine, quella città, quelle persone, quelle vie, quei palazzi, i colori, le nuvole, me stesso, mi sembra tutto privo di senso. Conservo tutto come un lento dolore, lento come le mie pedalate al ritorno dalle feste a casa degli amici, trascorse a bere e suonare la chitarra con le ragazzotte mezze comuniste.
Se mi perdono per quella stupida promessa? Beh, che dire, il perdono che si deve a sé stessi è quantomeno impossibile. I propri errori sono ineludibili. Gli sbagli producono scelte. Le scelte condizionano il tuo essere.
Libero, o particolarmente cinico, o riflessivo, in ogni caso quell’errore l’ho pagato da quando sono arrivato qui a Roma. E sento di non essere più in grado di farmi delle promesse. Sento di non essere in grado di superare il tradimento che ho fatto a me stesso.

G_

Brucia la parola

M. credeva di essere pazzo. Si lasciava illudere un po’ da tutto. Era molto eccitato per l’acquisto del suo nuovo sapone per le mani. Era davvero una bella saponetta, che la gente sarebbe tornata a trovarlo più volentieri solo per il piacere di sentirsi scivolare tra le mani quell’oggetto profumato. Ad ogni modo, quello che M. non riusciva davvero a capire era la ragione per cui, nonostante si fosse da poco lavato le mani, con la sua nuovissima saponetta per giunta, sentisse la necessità di farlo ancora. Voleva pulire qualcosa. Voleva lavarsi via qualcosa. Lavarsi la coscienza? E da cosa? Qualsiasi cosa di terribile avesse potuto fare o pensare, il rammarico era sicuramente una sensazione indotta dalla realtà esterna, dalle censure di cui soffriva, dalle finzioni che la gente comunemente scambiava per la vita reale.
Allora, a quel punto, decise che più nulla l’avrebbe condizionato e che le semplici sensazioni, il sentire comune, non avrebbero più potuto dominarlo e condurlo verso atti passivi e ingenui, come quello di lavarsi le mani per la sola ragione di avvertirle sporche. Non fu così.Subito dopo essersi asciugato le mani, corse nello studio e aprì quello strano oggetto che poche ore prima gli era stato regalato da S.La scatola, in legno, in realtà odorava un po’ di sughero bruciato e non sembrava avere alcuna funzione specifica. Poi M. capì che era proprio così, quella scatola non serviva a nulla. O perlomeno a nulla di indispensabile. Lo associava ad un foglio di scrittura di Word, inutile quanto qualsiasi altra cosa su cui si possa scrivere con una certa facilità. Poi però ci pensò meglio e ricordò che una volta aveva pensato un’altra cosa, e cioè che scrivere su Word aveva un suo vantaggio esclusivo: ti accorgi che la frase che stai scrivendo è corretta, elaborata e originale quando Word ti segna l’errore. Più grave è l’errore, più si dev’essere soddisfatti del proprio lavoro. Dopo tutti questi pensieri, insostenibili per lui, gli venne in mente che aveva voglia di scrivere qualcosa o almeno doveva farlo per S. Si sentiva in dovere di darle più attenzioni. Era stata così carina a regalargli quell’inutilissima scatola.Scrisse una parola su Word e la cancellò subito dopo. Poi fissò per interi minuti lo schermo pensando al tempo che passava, giorno dopo giorno. Credeva di sprecare tutto il suo tempo inutilmente. Si sentiva inutile, non quanto la scatola, ma comunque abbastanza inutile. E poi scrisse su word “inutilissima”, e word gli segnò errore. E allora cancellò e lo riscrisse staccato: “in utilissima”. E Word non gli segnò alcun errore. A quel punto decise di scrivere tutto quello che gli sarebbe venuto in mente, però staccando tutte le parole e dando loro il senso esattamente contrario a quello che aveva pensato. “Direttissima” lo trasformò in “Di Rettissima”; Leninista” diventò “Lenin Sta”. E dove sta? “Surrealista”, “Su” e “Realista”; “Catto Comunista” lo staccò direttamente Word, e poi, pensando a Giorgio Gaber, scrisse “Il Conformista” che subito diventò “Con” e “Formista”, e gli vennero alla mente forme di ogni tipo e dimensione che lo distrassero da quel lavoro.
Completati almeno otto se non nove fogli interi di scrittura fitta e intensa, venne distratto dal gran fumo che usciva dal posacenere. Notò con fastidio che la sigaretta accesa stava bruciando tutti gli altri residui che in poche ore si erano accumulati in quel posacenere. In realtà quello non era il suo solito posacenere, ma era la scatola sughera che gli aveva donato S. E così non potè esimersi dal cancellare tutto ciò che di stupido e inutile aveva scritto in quelle ore, e ciò non fece che accrescere la sua angosciante sensazione di sprecare la sua esistenza.Spense bene le cicche, svuotò la scatola nel bidone sotto la scrivania, e, apprestandosi a ripulire l’interno della scatola, notò che in diversi punti era già bruciata. Sì, bruciature. Ancora scottature. E l’oggetto odorava ancor di più di sughero bruciato. Ponderò razionalmente che allora la scatola potesse diventare il suo nuovo posacenere, così almeno avrebbe potuto conferirgli un utilizzo. Ma sapeva anche che S. l’avrebbe preso come uno sgarbo, e non voleva sembrare ancora una volta sgarbato agli occhi di lei.
Ma s’impuntò. Accese un’altra sigaretta, posò la scatola-posacenere di fianco alla tastiera del computer, abbandonò la sigaretta accesa al suo fianco e aprì un nuovo documento di Word. Stese le sue lunghe dita sulla testiera e iniziò a digitare:
Ogni giorno
qualcosa
brucia
E nulla più. Subito pubblicò sul suo blog questa che per lui era una poesia pregna di significati accostandoci una foto che anni prima aveva fatto al fondale del mare, sul litorale dove era solito andare ogni estate.In poche settimane il blog si diffuse in rete e proprio quella poesia risaltò alla critica degli esperti che misero su una vera a propria fenomenologia del caso. Libri vennero scritti numerosi su quei tre versi e anche TV e Radio ne parlarono con incontri e dibattiti.Dario Fò mise su uno spettacolo con cui vinse un altro Nobel. E per questo M. e Dario non si rivolsero più la parola per anni. Dario Fò, per la costernazione, allora decise di lasciare i diritti di quello spettacolo a Mario Pirovano, ed M. se la prese ancor di più. Tuttavia in un’intervista all’Espresso smentì tale risentimento. Mentre acerrime furono le parole che M. usò nei riguardi del Fò durante l’intervista al Tg1, tanto che Riotta rimase indeciso per giorni se mandarla in onda o meno. Andò in onda e fu un successone. Mai il Tg1 aveva fatto segnare un numero così grande di ascolti. E per questo M. fu chiamato nelle trasmissioni televisive domenicali, Buonadomenica, Quelli che il Calcio.., Domenicain, Gli amici di Maria De Filippi, ovunque M. andasse era un delirio e un’acclamazione. Si prestò a fare copertine di giornali, in Italia e anche all’estero. Zucchero scrisse per lui un album, ma M. rifiutò la collaborazione perché si accorse che tutti i pezzi erano copiati da altri cantanti, e preferì accettare la collaborazione con i Negramaro benché non sopportasse il cantante.Fino al giorno in cui M. non ricevette la telefonata che non avrebbe mai voluto ricevere. Berlusconi aveva bisogno di un candidato per le prossime elezioni e cercò di spiegare ad M. che lui era la persona adatta perché la gente si fidava di lui.M. trascorse diverse settimane a riflettere e rimuginare. Ne stava per fare una malattia, non mangiò per giorni, e si trascurò al punto di non sembrare più lo stesso, al punto che la gente arrivò ad occupare il suolo davanti alla sua casa per protestare contro la sua scomparsa dalla scena pubblica. M. restò isolato per qualche giorno ancora e a quel punto decise. Ordinò a S. di contattare Silvio Berlusconi, afferrò la cornetta del telefono e gli disse che si sentiva pronto a fare il grande salto. La campagna elettorale fu semplicissima, bastò davvero solo fare un paio di incontri con la società civile, dire un paio di bugie, e le elezioni furono vinte da Berlusconi ed M. diventò Presidente del Consiglio.In pochi mesi il regime s’insediò. M. era all’oscuro di ogni magagna del Cavaliere, ma il Presidente era lui, e la responsabilità era solo di M., che divenne il personaggio più discusso e odiato di sempre. Il paese ad un anno dall’elezione di M. a Presidente del Consiglio andò in malora. Il crack finanziario coinvolse persino l’intera Europa. L’Iran dichiarò guerra all’Europa e finì per lanciargli la bomba atomica che distrusse tutta l’Europa e parte di Medioriente. Gli americani fecero un film su questa storia con Johnny Depp come protagonista nel ruolo di M. dal titolo “Ogni giorno qualcosa brucia”. Alla prima del film, America e Russia si lanciarono contemporaneamente la bomba atomica e l’intero pianeta bruciò in un fuoco così intenso che le esplosioni raggiunsero Marte e in pochi anni anche il Sole, che, già Gigante rossa, implose in un buco nero risucchiando l’intero universo. A quel punto i giorni finirono e nulla più bruciò.

G_

Passeggiata di primavera - di Davide Fanigliulo [005]

Una bellissima mattina di aprile, un alto e robusto quarantenne uscì di casa per la sua solita passeggiata; il sole già caldo e il cielo limpido misero subito di buon umore l’uomo, che dimostrava la sua allegria fischiettando felicemente per la via, mentre si incamminava verso il solito parco dove avrebbe letto il solito giornale, avrebbe conversato con i suoi amici delle solite cose e avrebbe augurato la buona giornata a tutti prima di congedarsi e ritornare a casa.
Bisogna dirlo, la giornata era veramente fantastica: non faceva né troppo caldo né troppo freddo, non c’era vento, c’erano gli uccellini che cinguettavano felici e tutti sembravano sorridere, come se a tutti fosse capitata chissà quale fortuna, chissà quale vincita al gioco.
Il nostro uomo stava dunque dirigendosi verso il parco, canticchiando e roteando il suo ombrello come ad accompagnare la melodia, e alzava di continuo lo sguardo al cielo per osservare come le poche e sottili nuvole, circondate da un azzurro infinito e brillante, formassero strane figure e si dissolvessero poi in pochi istanti.
Da questo spettacolo lo distolse all’improvviso un rumore crescente e cupo, come di un tuono lontano, che crebbe improvvisamente, prendendo le forme di una motocicletta che con sorprendente velocità sbucò da un vicolo alla sue spalle e si diresse ad incredibile rapidità contro di lui.
Istintivamente l’uomo, girandosi di scatto per vedere cosa stesse succedendo, si rese conto del pericolo e di riflesso si gettò alla sua sinistra, schiacciandosi contro il muro, e sollevando, come a difendersi, il suo ombrello di ferro e frassino: la velocità e la traiettoria a zig-zag della moto la fece slittare e cadere al suolo, catapultando in aria il motociclista, che dopo un volo rapido di un paio di metri, atterrò esattamente sul nostro uomo, facendosi perforare il collo dalla punta metallica dell’ombrello.
Il robusto quarantenne, grazie alla sua prestanza fisica, non fu a sua volta gettato e terra dall’impatto, ma riuscì invece a mettersi subito in piedi, dritto, lasciando la presa all’ombrello e ritirandosi in dietro di qualche metro.

Dopo qualche secondo di panico e di confusione, l’uomo riprese coscienza della situazione, e davanti a lui si presentò in tutta la sua enormità l’entità del dramma che si era appena consumato: lo sfortunato motociclista era stato trafitto proprio all’altezza del pomo d’Adamo, e nonostante le piccole dimensioni della punta dell’ombrello, la violenza dell’impatto aveva provocato quasi il distacco totale della testa dal tronco, riducendo il collo a brandelli e provocando una copiosissima uscita di sangue.
Quasi certamente era morto sul colpo.

Resosi finalmente conto dell’incredibile vicenda che gli era capitata, l’uomo cedette al terrore e al disgusto per l’immagine che aveva davanti agli occhi, e proruppe in un pianto disperato: questo fece accorrere una gran quantità di persone, che si aggiunsero a quelle arrivate subito dopo l’incidente, attirate dal rumore stridente della schianto della moto.
Tutti quelli si che erano affollati sul luogo della tragedia cominciarono a bisbigliare: prima piano, poi sempre più forte, fino poi a creare un vero e proprio trambusto, con urla di uomini che domandavano cosa fosse successo, e donne, le ultime arrivate, che gridavano e si strappavano i capelli davanti allo spettacolo del corpo straziato del disgraziato motociclista.

Dopo pochi minuti, chiamato chissà da chi, arrivò un poliziotto, e allora tutti fecero silenzio, mentre questo, facendosi largo tra la folla, si dirigeva estremamente convinto verso il nostro uomo, per chiarire tutte le circostanze che avevano portato al quell’incidente e per far luce su di chi fosse la responsabilità dell’accaduto.
Il poliziotto cominciò ad interrogare il nostro uomo, che intanto si era accasciato al suolo, appoggiato ad un muro a lato della strada, vinto dalla disperazione.
-Che è successo?- chiese il poliziotto –Che è successo?
Ma l’uomo, in stato di shock, non rispondeva.
-Mi dica cosa è accaduto!- continuava l’ufficiale, scuotendo l’uomo per le spalle; ma questo non rispondeva: era completamente stordito, quasi assente.
Il poliziotto allora alzò la voce, e chiese nuovamente spiegazioni al povero quarantenne, che però continuava a non rispondere.
Dopo alcuni altri vani tentativi di comunicare con l’uomo, una voce tra la folla, approfittando di un momento di generale silenzio, cominciò a dire, urlando: “È stato lui! È stato l’uomo con l’ombrello! Ha assalito il motociclista e lo ha trafitto con l’ombrello! È un pazzo! Un pazzo!! Con l’ombrello, con l’ombrello!!...” gridava fortissimo; ed alla sua voce, improvvisa come un terremoto, si aggiunse quella di tutti gli altri presenti, che unirono le loro urla in un boato generale in risposta all’accusa, appoggiando però contro ogni logica la tesi dell’oscuro accusatore, ed indicando impietosamente con il dito indice il nostro povero uomo, che scioccato e ancora più confuso si attaccò al muro, spingendo con la schiena e con la testa, come se in quel muro ci fosse voluto entrare, per uscire poi dall’altra parte e scappare via.
Ma ormai lì era l’inferno: tutti, nessuno escluso(neanche il poliziotto), guardavano l’uomo con sguardo di fuoco, come non già ad accusarlo, ma addirittura a condannarlo; si udirono insulti, imprecazioni, bestemmie e minacce; ad un certo punto il nostro uomo fu addirittura colpito alla gamba da un porta-tabacco di metallo lanciato da qualcuno, tra la folla inferocita.
L’uomo era sconvolto, terrorizzato, talmente spaventato da non riuscire a parlare, da non riuscire a difendersi da quelle accuse; ma la sua faccia, stravolta dallo sgomento, ed il suo silenzio, non fecero che accrescere nei presenti la rabbia e la violenza verbale, la quale, ad un certo punto, non si sa come, non si sa perché, divenne violenza fisica: come se un versante intero di una montagna repentinamente si staccasse dalla parete e precipitasse a valle, come se milioni di tonnellate di roccia viva piombassero compatte dal cielo su un villaggio fatto di capanne di paglia, con la stessa inarrestabile forza devastatrice, quello scarso centinaio di comuni signori perbene, quel centinaio di uomini vestiti di tutto punto ed inamidati, scatenarono tutta la loro latente carica assassina sul nostro povero disgraziato quarantenne, che senza avere neanche il tempo di riflettere, e magari reagire, si trovò improvvisamente assalito da una massa informe di mani, piedi, gomiti e ginocchia, che lo cominciarono a percuotere con inaudita violenza su ogni parte del corpo, ferendo qui, rompendo là, slogando dappertutto.
Nel giro di pochi secondi, l’uomo fu preso e trascinato in mezzo alla strada, dove non si sarebbe potuto difendere in alcun modo, e lì fu massacrato di percosse, di calci, di pugni, di colpi di ginocchia sul naso e negli occhi; la furia della folla sembrava non avere limiti, tanto che, ad un certo punto, qualcuno estrasse un coltello e cominciò a colpire l’ormai moribondo quarantenne, ma con fendenti tanto potenti e precisi che, dopo pochi colpi, parte della mano del nostro sfortunato amico, messa a difesa davanti al viso, volò via, tranciata di netto: ad essa seguirono dita dell’altra mano, un occhio spappolato, un labbro portato via, un orecchio tranciato.
Il tutto durò circa dieci minuti.

Ma all’improvviso, così come si era manifestata, la brutalità di quegli uomini scomparve; l’esecuzione si concluse, uomini e donne diedero due colpi di mano sui vestiti per mandare via la polvere, i cappelli furono rimessi sulle teste(quasi tutte calve), e nel giro di pochi secondi in quella strada non c’era più nessuno.
A terra, in una pozza enorme di sangue scuro e grumoso, rimaneva il corpo mutilato e sfigurato del nostro uomo; la testa staccata a lanciata a qualche metro di distanza, non era molto lontana da quella dello sfortunato motociclista, a causa del quale tutta quella vicenda si era verificata.

D.F.

Guido Guidaccio (Emidio) - Parte Prima


Con Nello attendevamo l’arrivo di un qualsiasi mezzo per Porta Maggiore e accomiatarci verso i nostri quartieri, ben lontani dalla bettola che aveva accolto i nostri sfoghi e i nostri vizi quella sera. Così, dopo quattro bottiglie del vino della casa svuotate in meno di un’ora e un sovrabbondante piatto di tonnarelli cacio e pepe, le chiacchiere davanti alla taverna si erano protratte oltremodo, tanto da far scattare l’ora fatidica delle inconsapevolezze.
I primi dieci minuti alla fermata non era accaduto nulla e in più Nello iniziava disturbarmi oltremodo per il suo continuo via vai sulla banchina della fermata, a blaterare cose incomprensibili e a infastidire chiunque passasse di là in quel momento. Distratto dal continuo svanire del mio compagno, me ne stavo appartato appoggiato ad una transenna sul lato del vialone finchè tra i suoni fittizi della sbronza, si facevano largo quelli chiari della voce grave di Nello che aveva attaccato finalmente per lui conversazione con qualcuno.
Strepitoso!, non avevo notato fino a quel momento uno dei personaggi più farseschi che Roma potesse presentare. L’aveva scoperto Nello in quel momento, e lui se lo stava godendo con vaneggiamenti inesatti e osservazioni fuori luogo tipiche.
Assomigliava a Jonny Winter. Aveva dei lunghi capelli grigi e il viso magro. Gli occhiali sul naso erano integri da un lato e completamente distrutti dall’altro, tanto che la lente aveva preso la stessa incrinatura della montatura. Sembravano quelli dei cartoni animati. Pareva poi che il freddo l’avesse costretto a indossare tutti gli indumenti del guardaroba. Portava un completo elegante, che per il ripetuto utilizzo aveva perso quella qualità. La cravatta gialla e una canottiera grigiasta. Sopra ancora un soprabito grigio, normale e, sopra tutto, infine, un’altra giacca dello stesso colore della prima. A legittimare tutto nella sua stranezza una larga macchia rossa spalmata su ogni parte. Ignoro cosa fosse.
Il simpatico blue’s man chiacchierava di chissà cosa, parlava di suo figlio, del fatto che vivesse in uno degli appartamenti di quella strada.
Ci ritrovavamo dopo poco ad urlare fortissimo il nome di Claudio. Claudio doveva essere il presunto figlio del simpatico vecchietto. Ad ogni modo Claudio si era affacciato realmente dalla finestra ripetendo ad alta voce tutto ciò che urlavamo noi. Potevamo dire qualsiasi sorta di idiozia che lui la ripeteva, a voce un po’ più alta.
Intanto il primo notturno ci sfrecciava velocissimo davanti, e provavo ad immaginare cosa potesse sembrare dal di fuori: tre perfetti dementi. La demenza si era dopo poco trasformata in insana filosofia da strada. Nello pronunciava male le parole per esprimere concetti del tutto inutili. Io ridevo e basta. Il nostro amico non faceva altro che ripetere che doveva andare da un suo amico artista, pittore di nome Guido Guidaccio. Anche Claudio pareva conoscere molto bene Guido Guidaccio. Cotale artista doveva presumibilmente trovarsi in un locale in Trastevere, il Lettere e Caffè, in cui il padre di Claudio voleva trascinarci. Ma questo non ha importanza. Ciò che è importante è che in quel tergiversare inesatto un altro mezzo notturno non si accorgeva di noi, e ci passava davanti perentorio. Severo.
Quando ero piccolo i miei per farmi stare buono mi dicevano che avevano un figlio che tenevano nascosto di nome Claudio. – Il mio sogno, dissi a quell’uomo iniziando ad incamminarci a piedi verso il Lettere e Caffè, è sempre stato avere un monolocale a Trastevere.
Con voce trascinata e schiacciata lui mi rispondeva:
- Te voi puntà in arto se voi ‘na casa a Trastevere. Io cè vivo dar dopo guera, prima ce vivevano li poveracci, nno com’a mmo che cce vive a gente per bene. Perché so commerciaaante.
Un rum e pera, poi altri. Diversi rum e pera. Il succo di pera del lettere e caffè è davvero buono. È denso al punto giusto. Nello era sparito. Io ero completamente ubriaco.
Buio.
[…]

Ancora treni

L’eurostar Taranto-Roma è provvisto di tavolini fattiapposta per i pc portatili. Tuttavia, l’eurostar Taranto-Roma non ha previsto alcun luogo dove posare temporaneamente le preoccupazioni e i dolori di ognuno dei passeggeri. Penso ad esempio ad un vano porta dolori che si fa colmo e straripa di angosce, rimorsi, rimpianti, abbandoni, sconfitte… Due per ognuno di noi, due a testa, che è prudente come approssimazione.
Non so come mai il treno ispiri sempre meditazione e creatività. Nel treno c’è chi legge, chi scrive, chi mangia cose incredibili, chi ne vende altre pazzesche, chi paga, chi non paga e deve inventarsi modi originali per non essere sorpreso, tutti lo fanno a proprio modo, e a proprio modo sono creativi e geniali. E poi c’è chi pensa e magari pensa di essere "un grande" o di esserlo stato a suo tempo, chi pensa che deve arrivare presto perché è meglio così, e ancora, chi pensa sempre di morire.
Io penso ogni volta le stesse tre cose: dove sto andando? Dove sono stato? Dove andrò? È sempre il solito discorso della gente che porta il male dentro e cerca la scusa per ripulirsi la coscienza sugli altri. Sono talmente abituato a sentirmi solo, che il minimo accenno di preoccupazione o di mera attenzione nei miei confronti mi indispettisce, anzi no, mi altera. Mi disgusta.
Queste cose le ho pensate un giorno in treno che rientravo da Bari a Roma. Ero andato a fare i test di selezione per uno di questi tanti merdosissimi post-laurea (meglio Post-office di Bucowsky - si scrive così?).
Non ricordo tutto di preciso, mi limito solo a dire che, eccetto le prime ore in cui sembrava tutto abbastanza nella norma, a sera, intorno alle sette sono arrivati i carabinieri e siamo andati tutti a casa di forza.
Qualcuno ha chiamato i carabinieri perché la commissione non si decideva a far uscire i risultati degli scritti. Pretendevano che dovessimo sostenere gli orali nello stesso giorno, ma si era fatta sera e ancora non si sapeva nulla… ma nulla nulla, anzi, avevamo tutti l’impressione che la commissione, non solo non stesse realmente lavorando, ma che se ne fossero proprio andati tutti a casa.
E intanto tutti i figli di dei minori ad aspettare lì, senza pranzo, senza cena, chi con i genitori al seguito, senza fumare, a nessuno che andasse di flirtare, un delirio.
E tutto ciò non ha fatto altro che accrescere i moti inquieti dell’animo mio al rientro a Roma, in treno, e finisce che scrivo quelle premesse inutili che poi restano dimenticate a inizio pagina.

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Lettere... incomplete da Barcellona - di Antonello Pinto [003]

1.

In fondo è inutile nascondersi dietro un dito perchè si rischiano solo figure di merda. L'amore non esiste, è solo uno stato mentale fastidioso che ti fa sembrare di fare molto quando alla fine non fai un cazzo.
Quella sera a plaça real come al solito i giris erano la maggior parte; ubriachi, intorno alla fontana, con qualche moro o negro africano che girava lì intorno, magari per dargli una crepa col fumo o meglio ancora con la bamba. Da quando mondo è mondo tutti lo sanno, non comprare mai cocaina per strada, pure mio padre lo sa, cazzo!!!
I pakistani giravano come satelliti impazziti, ma tranquilli, per la piazza con le loro estrella dahm e la loro aria sorniona.
Sono i migliori. Se rinascessi e mi capitasse un paese musulmano vorrei fosse il Pakistan. Non c'è niente da fare, mi stanno simpatici, sono onesti commercianti nati, sanno vivere in qualsiasi luogo del mondo senza spogliarsi di uno straccetto della loro cultura. Sono invulnerabili. Parlano solo hurdu anche se stanno in un paese straniero da tutta la vita. Persino i bambini sono così.
Io, Neus e Laura entriamo in un bar, ci sediamo e a turno andiamo a prendere da bere, tre cubata, per tre. Parliamo del più e del meno ma in maniera divertita ci troviamo bene, e la serata sembra andare per il verso giusto.
Domani non lavoro. È l'unica cosa che penso in alcuni momenti e mi riempie di gioia. Passate le tre i bar come in tutte le città che si rispettino non servono più alcolici. Che palle dobbiamo andare in un club. Una discoteca proprio al lato, vedo che la piazza segue nella sua notte turistica e avvinazzata. Devi notarlo il grigio giallo degli edifici stona molto con la pinta che vorrebbero dare alla città vecchia per farla appetibile agli stranieri e trasformarla in un centro commerciale a cielo aperto come Roma, Parigi, Londra, Berlino, Stoccolma, Budapest, e chi più ne ha più ne metta.
Entriamo finalmente nel club.
Come al solito gli stravolti ci travolgono. Se stai con due ragazze in discoteca ti rendono la vita impossibile....

2.

La linea gialla di barcellona è molto accogliente, prima per ogni fermata avvisavano dicendone il nome, adesso, da quando il nastro per un po’ di volte si è invertito dicendo i nomi delle fermate sbagliate, non avvertono più.
Non accade molto ma quando qualcosa è nell’aria, lo senti dalla mattina.
Ieri mattina al Fresco Co sembrava tutto normale. Il pensiero di dover fare il doppio servizio mi deprimeva, e quando sono entrato neanche l’aria calda della califazione mi dava il solito sollievo.
La mattina tutto è andato come al solito, non è venuta tanta feina, ma ero particolarmente ansioso, di un ansia felice, euforica. Trattavo i clienti meglio del solito, parlavo spagnolo abbastanza velocemente, nei miei limiti, e mi muovevo molto velocemente intorno alle
mesas del locale. Pensavo che fosse per il fatto che avevo dormito e non per una specie
di sesto senso....testosteronico...che invece si è rivisto la sera. Alle 6 sono uscito, dopo un lauto pasto, sentendo sul viso tutto il freddo del vento tagliente delle strade cerca la Rambla de Catalunya, e l’euforia, che fino a prima di mangiare era più che viva mi ha abbandonato.
Sono tornato a casa un po’ stanco e sono riuscito solo a scambiare quattro chiacchiere con Genis e Alfonso, un giro per cercare un colchon per Gianis su Carrer Verdi e la via che la incrocia, e poi di nuovo al Fresco Co.
Prendo la metro e arrivo molto prima, almeno 20 minuti, scambio i soliti convenevoli con la filippina alla barra delle verdure e con la encargada Jessica, mi sono messo la divisa verde e quando sono uscito ho fatto qualcosa, Jessica col suo culo gordo mi diceva di volermi insegnare a battere col registratore di cassa, cosa che ancora mi rifiuto di fare per via della troppa vicinanza con i soldi, mi sembra che ci provi... ma mi farei fare solo una pompa, ha delle belle tette, penso che le verrei su quelle tette giganti e sode e un po’ pure sulla faccia, per vedere se il suo sorriso tanto simpatico svanisce.
Aiuto Ikhram e Mustafa in cucina, e poi mi metto in sala, è abbastanza lento, ma non come le altre sere, il lavoro c’è, non passo molto tempo senza fare nulla.
Fino alle 11 tutto bene, ma alle 11 in punto entrano 4 ragazzi, non ci faccio molto caso, una davanti dice "no me tocar el culo!", e ride ad alta voce, ma non sguaiatamente, come fanno le coatte.
Non ci faccio molto caso, i catalani sono molto vivi, sono scene abbastanza frequenti, anche in una specie di Fast Food salutista stile Buffet libero.
Sto parlando con la Filippina Vietcong che mi spiega come si pulisce la macchina del"caffè", se così si può chiamare, e alzo lo sguardo con un gesto quasi istintivo, la vedo, mi guarda, le sorrido, lei sorride, io mi giro, continuo a lavorare, continuava a guardarmi. Che bella!!!!!!!!
Mangiamo, io la filippina, Jessica, Ikhram e Mustafà. Jessica mi dice, "la mia amica ti dice che sei guapo!".......mai successo, mai successo in vita mia che una tipa di un metro e ottanta, il viso come quello di una modella di una pubblicità di prodotti per la pelle delle teenager, e un corpo da olimpiadi pret a portè mi dicesse che sono guapo mentre lavoro in un locale per famiglie che assomiglia molto alla mensa universitaria, quella di Economia.
Tremavo ma non lo davo a vedere. Con la scusa di raccogliere un piatto mi avvicino al tavolo, la tipa mi chiede come mi chiamo, mi dice che è russa ma gli amici la incalzano... mi dice che è cubano italiana, ma non parla una parola di italiano, si chiamo Lubia, che a dir suo significa AMORE.... amore amore amore. Dopo un paio di puntate al bagno, con sottofondo di risate di un pakistano e un indiano, che a quanto pare possono unirsi a prendere per il culo un nemico comune, IO, mi chiede se voglio uscire con lei e i suoi "amici", le dico di sì, non io, il mio pisello...le dice di sì. Usciamo verso l’una o poco dopo, non faccio caso all’orario, ma Jessica rosica perchè c’ha il novio che la aspetta a casa, o il marito, comunque non può. Io si.

A.P.

Sere di un'interminabile Domenica

Oggi è Domenica. Il giorno del signore, e delle signore, aggiungerei.
La Domenica mattina le signore in paese si mettono le calze bianche opache. La gonna a mezzo ginocchio e la camicetta scollata. Poi la giacca. E il sole.
Chissà perchè tutte le domeniche al paese me le ricordo assolate. È come se anche gli astri avvertissero le regole sociali che "l'animale essere umano” si è dato.
Peccato. Alla fine, le domeniche che ci godiamo davvero così come vorremmo, sono davvero poche. Pochissime direi. Le buone prospettive sono sempre tradite, e quel grande sforzo che si fa a non restare nella naturale condizione di tristezza umana viene magari eluso dalla pioggia, dagli impegni, dalla vita.
La vita è la domenica. La vita è esattamente come una Domenica. La Domenica è il giorno delle attese, delle speranze, il giorno che tutti, in un modo o nell’altro, decidono di dedicarsi a se stessi. Ma poi tale sforzo risulta vano e il solo impegnarsi sul come fare una certa cosa consuma tutte le energie necessarie a farla. E dunque le signore che vorrebbero pregare e riflettere sulla vita perdono troppo tempo a pensare a quale camicia mettere, e che sembrino bene; e le gonne a mezzo ginocchio, che sia proprio mezzo, proprio in quel punto. E così arriva la sera che sono riuscite solo a vestirsi. E nient’altro. Arriva la domenica sera che hai solo pensato al modo in cui viverti la giornata ed hai tralasciato il piccolissimo particolare di vivertela.
La domenica è la vita. La sera: i momenti in cui senti la coscienza. Le sere della vita sono quelle in cui ti rendi consapevole che hai vissuto un modo e non un sentire. Le sere della vita ti fanno prendere consapevolezza del tuo sentire, delle tue afflizioni reali: le uniche realmente esistenti. Quando arriva la sera ti ricordi del tuo naturale sentire, ti svuoti da tutto il resto e riaffiora il provare davvero la vita: privazione di cose vere.
Il processo è comprensibile però. Ti costruisci delle distrazioni, talvolta seriamente futili, per evitare di prendere coscienza e ritrovarti nella naturale condizione di essere pensante. La domenica, giorno in cui pochissime di quelle futilità si riempiono di senso, si ha la necessità di inventare delle cose prima che la coscienza si risvegli.
Tuttavia è proprio in quel brevissimo lasso di tempo in cui la coscienza si risveglia che il tuo corpo prende delle decisioni radicali ed estreme. È in quei momenti che prendi le decisioni che poi ti sembrano strane, inconsuete, inconsapevoli. Ma poi quando rinsavisci (per modo di dire) ti rendi conto che tanto una finzione vale l’altra e allora inizia a non importare più se vivi a Roma, a Parma, A Conversano, in Uganda, in Paraguay, in Brasile.
La mia coscienza mi sta suggerendo di ascoltarmi durante le sere della mia interminabile Domenica. Sere che da troppo tempo sto tenendo a tacere.

G_

Sposi

Laura si sposava perché lo aveva sempre desiderato. Giulio sposava Laura per dimenticare Elsa e anche perché gli piaceva pronunciare le r e le t. A Giulio non importava un gran ché di ciò che gli accadeva intorno, e non per disinteresse ragionato, ma piuttosto per naturale apatia. Nulla aveva peso se non la partita di pallone o il parcheggio che non si trova. Il thriller Mondatori facile facile sul comodino; le scarpe: chiuse d’inverno, aperte d’estate, di pezza in autunno, di tela in primavera.
- Lavori?, chiese Matteo a Giulio, il giorno in cui la sorella decise di presentare Giulio a tutta la famiglia.
– Si, rispose Giulio con sguardo basso e la voce di Quattrocchi dei Puffi, faccio lo stesso mestiere di mio padre.
Col ghigno appena accennato Tutor, padre della futura sposa, si era fatto avanti dicendo: – Quale lavoro è di preciso?-, e Giulio, con la medesima cadenza, espressione facciale e voce: – L’arara sbrediglio.
Sguardi prima attoniti e poi subito complici si scontrarono nell’aria quelli di Matteo, Tutor, Vabene, la madre.
Laura, invece orgogliosa, sfidava con occhi semichiusi l’insolenza di Matteo, che sicuramente stava risolvendo chissà quale terribile e offensiva conclusione nei riguardi del suo Giulio.
Tutor, interessato, accomodandosi con l’aria di chi crede di conoscere perfettamente e meglio degli altri i discorsi, congiunse le mani portandole piano alle labbra e accavallando le gambe in un moto che lo portò a scivolare comodamente sulla poltrona chiese ancora: – Inusuale! Pensavo che nessuno più farasse ancora la lalla.
– Beh, effettivamente smonellinare così come facciamo noi è difficile trovarne in Italia. All’estero già è più frequente vedere gente che giusterri al strime, tecnica ben più moderna…
- Dunque, e qui ancora Tutor, la vostra ditta è quella che fa volanti per auto e cibi precotti?!
– Si, e a dire il vero ultimamente stiamo per entrare sul mercato con un nuovo prodotto di cui io sto curando personalmente l’aspetto del mastorvill senders.
Laura, intanto, aveva cambiato l’espressione in quella di prima della classe. Ma perché?
– Interessante, pensò ad alta voce Tutor lasciando una sola mano ora a carezzarsi il mento liscio e rasato.
– Ma dimmi, di cosa si tratta praticamente, intervenne Matteo convinto che stesse sognando o che lo stessero prendendo in giro. La sua domanda stizzì un po’ tutti, facendo scappare via Laura in cucina dalla madre che intanto preparava i gelati.
Matteo allora, ancora più sbalordito, raggiunse Vabene e Laura in cucina e tentò di spiegarsi, ma la madre lo guardò e disse: – Teo, smettila di fare lo scemo come al tuo solito.
- Sei veramente stupido , aggiunse Laura, girandosi di scatto.
Lentamente Matteo tornò in veranda dove i discorsi tra Tutor e Giulio intanto incalzavano uno dietro l’altro con ritmi altissimi e chiare espressioni di fierezza per ogni parola spesa. La chiacchierata epilogò da lì a poco in una pizza e birra.
Scelsero la pizzeria in cui da anni la famiglia portava gli ospiti e usciva a cena quelle rare volte che la noia veniva avvertita.
I quattro davano l’impressione di non conoscersi neanche; accennavano qualche gentilezza e formalità tipiche di chi s’incontra solo di rado e quei sorrisi inutili che conferiscono imbarazzo al volto di chi li riceve. Poi, con il nuovo ospite, tutto diveniva paradossale.
- Beh, certo, mio padre ha deciso di inserirmi nelle sue attività e da ben due anni non mi passa più una lira.
– Veramente ora ci sono gli euro, esordì malamente Vabene scatenando il rossore di Tutor e un breve sorrisino di Laura.
– Emm, dunque, io mi sono inventato un lavoro, certo, non sarò mai come mio padre, pensi un po’, signor Tutor, una volta lasciò mio fratello di 3 anni un giorno intero in macchina nel parcheggio per i dipendenti: capito che uomo? Lui lascia il suo BMW tra le Punto dei dipendenti!
Matteo lasciò cadere il pezzo di pane che giocava in bocca scatenando l’infantilità e l’ipocrisia di Laura, che affermò piagnucolando – ma questo è proprio cretino, mamma fai qualcosa per lui!
– Eh Laura io tento di portarlo da Don Scozzo, ma lui è ostinato, non vuole venire. E tu, cerca di cambiare, Matteo, figlio mio, non puoi rimanere sempre delle stesse idee, vedi noi osserviamo sempre gli stessi principi da quando siamo nati!
Con un leggero colpo di collo in avanti ad aggiustarsi i capelli della nuca ,Tutor firmò le parole della moglie.
– Ma mamma, questa è una contraddizione…
Subito interrotto da Tutor, che colse l’aggrottamento delle sopracciglia di tutta la compagnìa, – Che dici? Contraddizione?! Che termine è questo, ma perché te ne esci con ste puttanate intellettuali? Proseguiamo il discorso sul farare la lalla che mi sembra più interessante.
Sfinito, Matteo s’allontanò dalla tavolata sotto l’indifferenza generale per concedersi una sigaretta.
Appena fuori dal locale gli si accostò uno dei camerieri uscito dalla cucina per fumare anche lui e con l’aria di complicità, di chi ti capisce al volo disse:
- Sei al tavolo centrale vero?
– Si, esatto.
– Sembri giù, si, quasi sconsolato
– No, sono solo un po’stanco…
– Hey, bada, l’ho notato che non sei in sintonia col resto della compagnìa, eppoi, sono un po’ strani a direi il vero.
– Ma allora mi puoi capire…. mi puoi capire?.
A interrompere i due si sentirono urla sconnesse provenienti dalla cucina che esortavano il giovane cameriere a rientrare al proprio posto.
– Dai, caro mio, non t’abbattere per questo, su, coraggio, ora rientra e fatti deliziare dalle bontà della casa, tra un attimo vi entregherò il ripmo: ciamonase allo quortimendre!

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