La mattina del 25 maggio del ’95


La mattina del 25 maggio del ’95, riflettendo che da lì a quattro giorni sarebbe stato il mio compleanno, io e il mio fedele compagno di banco delle superiori a seguito di una veloce consultazione decidemmo che era quella l’occasione per farmi regalare da tutti i compagni di classe una bella chitarra acustica amplificata per il nostro gruppetto musicale.
Il gruppetto non era niente male, era semplicemente pessimo, ma la chitarra acustica ci serviva comunque per registrare e anche per soddisfare la sterile abitudine dell’uomo ad attaccarsi ai beni perituri di questo mondo.
La ragionieristica in quel caso era semplice: la mia classe era formata da 25 elementi, tolti me e Massimo, e qualche altro bastardo che si sarebbe rifiutato di farmi il regalo perché mi considerava a sua volta un bastardo, avremmo potuto contare su circa un duecentomila lire, senza neanche attingere dal mondo esterno e sconosciuto. Quella bella Ibanez nera che era in vetrina al negozietto accanto alla scuola stava per diventare mia. Senza troppi sforzi.
Già immaginavo il nuovissimo liuto nero a fare coppia con la già mia Yamaha rossa, ricevuta in dono dai miei qualche anno prima. Pensai che dovevo affrettarmi a comprare anche un altro poggiachitarra che potesse ospitare la nuova Ibanez in tutta la sua nerezza.
Neanche a farlo apposta quel giorno stesso mia madre mi chiese se volessi dare una piccola festa a casa.
“Luca, perché non inviti i tuoi compagni di scuola venerdì per festeggiare il tuo compleanno?”.
“Mamma, il mio compleanno è giovedì non venerdì”.
“Eh, sì, non ti fissare con sti dettagli!”
“Sti dettagli, mamma..!?”
“Vabbè comunque se ti va dimmelo per tempo così preparo dei panini, una teglia di pizzette, mando tuo padre a comprare aranciata e cocacola”.
Panini, pizzette, cocacola e aranciata? Vabbè… in ogni caso cedetti alla richiesta. La festa si faceva giovedì tanto in assenza di alcool il giorno dopo si poteva andare tranquillamente a scuola. Sì, e io avrei parlato della mia nuovissima Ibanez con tutti.
“Max, ma se la comprassimo prima?”
“Cosa?”
“Massimo, la chitarra, l’Ibanez.. come cosa!?”
“Quale Ibanez, Vecchio, cosa stai dicendo?”
“Sei veramente coglione!, l’Ibanez che dobbiamo “regalarmi” per il mio compleanno, ieri ne abbiamo parlato!”
“Scccch, non urlare, se no ci sentono”
“E ho capito non urlare; tu non ti dimenticare di tutto!”.
“Ragazzi, chi è che parla lì dietro… a chi è che non interessa la lezione su Seneca? Chi devo mandare a fare due chiacchiere dal Preside?...”
Sono sicuro che in assenza di soggezione si sarebbero alzati in venticinque per scappare via dalla lezione di letteratura latina. Ma tutti tacquero. Compresi me e Massimo.
“Vecchio, renditi conto che è una cazzata comprarla prima…”
“Ma chi ti ha dato i soldi finora?”
“Ancora nessuno… ma fidati, non ti preoccupare che tra oggi e domani li raccolgo tutti, ma tu già da oggi invita gli altri alla festa”.
“Ok ok.. ora scrivo un bigliettino e lo faccio girare tra i banchi mentre questa strana signora bionda chiacchiera di Senegal… ahah!”
“Ahaha, Seneca, Senegal…”

***
Il bigliettino iniziò a girare quel giorno stesso, all’ora di letteratura latina, a quella di chimica, a quelle di matematica no. E pollici in su si elevavano verso di me, verso la direzione in cui era il mio banco con me raggomitolato a testa bassa come sempre per simulare l’assenza. La “presenza assente”, era questo il mio modo di stare in classe al liceo.
Tutti a dire che era ok… col sorriso da hostess le femminucce, o quelle che dovevano essere delle femminucce, e ghigno appena accennato i maschietti, o quello che restava di quei puzzolenti segaioli.
Tutti a fare di sì col pollice alzato. Ventiquattro piccoli Arthur Fonzarelli, Ehy!
Rossella si era persino avvicinata al mio banco al cambio dell’ora chiedendomi:
“Vecchio che bello fai la festa giovedì.. posso portare anche Daniele?”
“Certo, come no, sono diecimila lire in più!”
“Vecchio certe volte sei proprio deficiente…”
Tuttavia alle 14.00, perché noi al liceo uscivamo tutti i giorni alle due, e non si sa perché non facevamo neanche ricreazione, quelli di fuoripaese disdissero l’impegno preso col pollice in su. Legittimati, erano a qualche chilometro da casa mia, senza macchina né moto, avrebbero dovuto rompere il coglioni ai genitori, che poi dovevano tornare a prenderli… poco male, dai una cinquantina di milalire in meno, come previsto. Massimo, che stratega quel mio amico.
Poi però, forse sarà stato il calo di zuccheri e la stanchezza accumulata per sei ore di farnulla in classe, ma anche altri m’inseguirono quasi fin sotto casa balbettando emmh ed eeehh “il mio ragazzo”, “mia zia”, “mia madre”, “interrogazione di storia”, “compito in classe di matematica”… ma venerdi abbiamo educazione fisica disegno e religione!
Non ho mai capito perché chiamiamo l’ora di religione “ora di religione”. Dovremmo chiamarla “ora di bigotteria”. Una volta durante l’ora di religione parlammo di cazzi e fiche. Ma ne parlammo in maniera innaturale, come se nessuno fosse dotato né di cazzi, né tantopiù di fiche.
Vabbè, in somma, forse dovevamo rettificare il tiro verso la Squire da centomila lire e abbandonare a malincuore l’idea dell’Ibanez nera.
“Oppure facciamo che io ci metto una cinquantamila lire che mi faccio dare dai miei e compriamo l’Ibanez sunburst da centocinquanta”.
“Centocinquanta cosa, Vecchio?”
“Se vabbè, Massimo, vaffanculo”.
Il budget a disposizione stentava ad avvicinarsi a quello sperato. Bisognava estendere l’invito a quelli delle altre classi.
“Chi? Gianluca Vecchio? Quel pezzo di merda!? Col cazzo che vengo alla sua festa!”. È stata pressocchè e in termini estremamente succinti la sensibilità comune nelle altre classi. Ero un ragazzino detestato.

***
Alla sera del 30 maggio 1995 mia madre aveva preparato l'iradiddio delle prelibatezze: panini, focacce, pizze, pizzette, dolci, tartine, tramezzini e quant’altro di peculiare delle festicciole tra ragazzini di quell'età.
Io avevo preparato le stanze per l'occasione: avevo messo in bellamostra la mia chitarra elettrica e pure quella classica; avevo incolonnato i CD di cui andavo più orgoglioso e i libri che non leggevo.
Mentre facevo tutto questo pensai che i miei compagni non sapevano nulla di me. Non conoscevano le mie passioni, i miei dolori, i miei oggetti, le mie capacità e neppure i miei limiti. Loro buttavano tutto questo complesso umano in un enorme e informe calderone di pregiudizi che dava la certezza a sentirsi superiori e consapevoli della persona che tutti i giorni avevano davanti, o dietro a quei banchi umidi e segnati dai colpi di panno delle bidelle.
Ricordo che m’incazzavo tantissimo perché ogni mattina i banchi erano sempre sporchi, ma non perché le bidelle non avessero fatto il loro dovere, ma perché lo avevano fatto male! Ed era come se non l'avessero fatto proprio perché pulivano i banchi con lo stesso straccio con cui prima avevano pulito la lavagna sporca di gesso. Quindi toglievano il gesso dalla lavagna e lo ricollocavano su tutti i banchi. Tranne che sulla cattedra, perché forse pulivano in successione prima la cattedra, poi la lavagna e infine i banchi. E allora noi tutti ipotizzavamo che facevano questo per fare bella figura con i professori e per fare un dispetto a noi ragazzi.

***
Alle ventietrenta di quel trentamaggio del 1995 a casa mia erano previste una trentina di persone e una chitarra acustica Ibanez nerissima e invece fino alle undici della sera rimanemmo intorno ad un tavolino sul balcone che dà su via Parini solo io, Massimo e Alessandro, un altro fedelissimo compagno e amico. Diciamo però che questa situazione non era propriamente una novità perché a prescindere dalla festa loro due ci sarebbero comunque stati a casa mia, come tutti i giorni.
Ciò che invece risultava strano era la presenza di tutto quel cibo da festicciole tristi sui tavoli in soggiorno e la mancanza di una Ibanez nera.
Gli altri miei compagni non vennero alla mia festa per quei pregiudizi di cui sopra e perchè fondamentalmente non gliene fregava un cazzo. Questo lo capii dal momento che, abitando io in pieno centro al mio paese, ne vidi passare alcuni per strada, anche abbastanza annoiati per la serata priva di iniziative, “…la solita serata infrasettimanale paesana, ci andiamo a prendere il panino alla Griglia da Piero?”.
“Ragazzi, ma non vi sembrano Rossella e Daniele quei due sul motorino?”
“Vero Vecchio, sono loro…”
“Ma Rossella mi aveva anche chiesto se potevano venire insieme…”
“Sì, e tu le hai detto che potevano passare in cassa a pagare”
“E vabbè ma era una battuta”
“Vecchio, per una battuta le persone si offendono”
“...”
“Moltiplicale per 25…”

***
Per me, Massimo e Alessandro invece non ci fu bisogno di spendere dei soldi e intossicarci in paninoteca, e non ci fu neanche bisogno di offenderci per le battute altrui”
Ricordo anche che la mia famiglia si assentò inspiegabilmente. Nessuno aveva il coraggio di venire a vedere come stavo, né di farsi un giro nell’areato soggiorno in cui ero con i miei due amici. Non perchè se ne dispiacevano troppo e non potevano sopportare vedermi triste, ma perchè non si sarebbero trattenuti dal ridere nel vedere quella imbarazzante situazione. Ebbi l'impressione di essere rimasto da solo. E da quel momento in poi quella sensazione non mi ha più abbandonato.
Ora, dopo tredici anni da quel 30 maggio de ‘95, penso che quando sei solo hai un mucchio di vantaggi; vero è che non devo fare file, non devi avvisare nessuno e non trovo mai il bagno occupato.
E ora mi godo la mia solitudine, identica a quella di tredici anni fa. Ho soltanto qualche chitarra in più da mostrare nella mia stanza; la mia Ibanez nera me la sono comprata. Io, sempre da solo.

G_

[Copiaincolla dal Blog Catastrofe Verticale] - 110 - Donne


Le donne, della cui dipendenza molti uomini vanno fieri, sono propriamente il Male, in quanto ci costringono, con le loro sudice armi, a concentrare le nostre risorse e i nostri sforzi sulla vacuità dei sentimenti e sulle debolezze a cui questi ci costringono.Non saranno mai abbastanza maledette, le donne, corresponsabili della sconcia perpetuazione della specie, e generatrici del dolore attraverso il desiderio.Chi canta la femmina cerca e vuole il male, cerca e vuole le torture del sentimento, i dolori della gelosia e del possesso, le assurdità del volere e volersi, le frustrazioni del coito.Ce ne accorgiamo, dopo l'orgasmo, quando scema ogni lirismo: finita la scarica, cosa può valere quel pezzo di carne nel letto? Abbiamo avuto ciò che cercavamo.Cosa possono valere le carezze, quando abbiamo superato la soglia del piacere, quando vorremmo solo stare da soli, o morire? Cosa possono valere le parole, sempre e sommamente stupide?Poi tutto ricomincia e noi torniamo gioiosi dai nostri carnefici, non perché valgano nulla per se stessi, ma perché cerchiamo ancora una volta la voluttà, l'umido.E il ciclo pietoso riprende: bisogno di scaricare, odio di se stessi, odio per quell'accidente della vita che ospitiamo nel letto.Tutto riprende, anche la nostra ipocrisia, senza la quale non potremmo mettere insieme il serraglio, senza la quale non riusciremmo ad entrare nelle grazie di questa o quella femmina, senza la quale non avremmo modo di esplorare bocche, ani e vagine.Riprende la faticosa messinscena, alternanza di bava e menzogne, erezioni e conversazioni. E confidiamo che lei non sappia, non si renda conto, e pensi di noi chissà quale falsità, o ci adori per qualità che non esistono se non come maschera, come traduzione dell'urlo dei nostri ormoni. I genitali si cercano e le anime credono di trovarsi, ironizzava Safranski.E allora capita questo, dopo aver scaricato, che avremmo voglia di prendere a schiaffi la nostra compagnia di letto, diventata all'improvviso un mostro dopo aver vestito i panni della dea; dopo essersi svuotati, svanisce ogni poesia.Solo il calcolo ci impedisce di essere onesti, e di sputare sull'oggetto della nostra libido; solo l'idea di poter sfruttare ancora una volta quel corpo ciesime dall'oltraggiare senza pietà questi ricettacoli di sperma e speranze, questi intercambiabili passatempi.E Dio solo sa quanto la semplice masturbazione, per lo meno negli effetti, possa agevolmente sostituire l'avvenenza già marcia delle forme e della carne.


Urlando


La viaggiatrice mi ha detto che stanotte lascia la città. Lascia quella città, di cui non ricordo il nome, che si trova a un solo passo da Roma forse due, ma tanto non importa perché resta irraggiungibile. È irraggiungibile per chi è coinvolto nel vortice dell’ingranaggio. Ingranaggio da cui nessuno è escluso, neppure l’asceta, neppure il mio amico Davide con le sue teorie del cazzo. Abbiamo fatto le tre sul messenger io e la viaggiatrice senza motivo, tutto tempo tolto alla coscienza e al sesso. Fare le tre sul messenger è come sbagliare a “scendere” a Burraco, ti sei solo distratto un attimo.
Lo so che è tutta colpa di questa mia velleità da scrittore. Ho iniziato a fare “esercizio di stile” sul messenger da tempo, salvando tutti i dialoghi, per poi trarne ispirazione. Finora però non mi hanno ispirato proprio un bel cazzo. Sono praticamente dei dialoghi già pronti quelli lì, già pronti e confezionati, non devo fare altro che darci una sistemata e copiare e incollare tutto su word. Però poi anch’io, che sono un uomo, immagino cose, e ne desidero altre. Mi innamoro delle mie stesse idee o di fotografie scannerizzate per i profili online, che in realtà sono dei database necrologici anch’essi già pronti, e dimentico che l’amore è in realtà un modo come un altro di dare forma alla speranza, alla solitudine, ai genitali, all'amor proprio.
Figurati se la viaggiatrice dopo tre ore di messenger s’inventa il coraggio di una fuga notturna per correre da me. Come se ci fosse qualcuno disposto a correre da me, con la playlist scelta apposta.
***
La viaggiatrice ha legato le sue codine alle tempie, pronte per l’oriente, ha dato due colpi di matita sotto gli occhi, pronti per farsi fessura preoccupante, poi col sorriso appena accennato, la stanchezza del viaggio, le braccia di donna con le linee blu delle vene scritte sotto la pelle sottile e bianca si è infilata in macchina.
La viaggiatrice ha indossato il kimono rosso e tormentoso, il rosso che ricorda il tango e che non nasconde nulla, neanche l’egoismo di desiderare. Non so perché ho sempre associato il tango al Giappone, forse perché sono ignorante fino all’anima.
La viaggiatrice è montata in macchina raccogliendo i pochi inutili pezzi di sé per riempirne lo zaino. Lo zaino? Che importa. Mica vorrà dormire a casa mia? Non sa neanche dove vivo, dov’è casa mia, dove sono localizzato, dove sono domiciliato.
La viaggiatrice mastica le “vivident” e urla ancora prima di dare fiato alle corde vocali. Provo a sentire cosa urla. Sta urlando il mio nome.
Ma io sento solo un lamento, il lamento dell’attesa. La sensazione è la stessa di quando fecero saltare in aria il barbiere sotto casa mia. Nel sonno iniziai a sentire voci che urlavano “dov’è stato, dov’è stato..?”. E io credetti che si stava dando la caccia ad un intruso nel palazzo. E invece era esplosa la bomba del pizzo sotto casa mia e io non me ne ero neanche accorto.
La viaggiatrice sta per far esplodere un’altra bomba. Quella dell’istinto e della inadeguatezza nell’assecondare le più infantili voglie.
La voglia che mi venne quella notte della bomba del pizzo fu di inseguire il ladro con la mia pistola finta e metterlo al muro fino all’arrivo delle guardie che se ne sarebbero occupate. Ma non c’era nessun manigoldo da inseguire, piuttosto c’era da correre e lasciare l’appartamento prima che le fiamme arrivassero fin dentro casa.
Prima che arrivino le fiamme nel mio letto devo scappare. Devo fuggire per non farmi trovare. Qui rischio che da un momento all’altro me la ritrovo ad urlare il mio nome per strada… a chiedere alla gente se mi conosce.. a chiedere agli avventori ubriachi delle strade che frequento anch’io tutte le notti. Tutte le notti tranne questa.
La viaggiatrice spinge sull’acceleratore. Fuma e mastica. Sogna. In silenzio. Urlando il mio nome.
***
La mattina dopo, come destata da un sogno di bambina, si è svegliata rannicchiata e dolorante nella sua automobile, senza nessuno che le tenesse la mano, senza carezze.
Un rincoglionimento astrale. Gli universi paralleli non si sono incontrati. Mai!, e poi la calma e la quiete delle giornate più piatte, i grigiori degli inverni inabissati, il cielo senza colori sono penetrati dentro di lei come conseguenza della sua stupida prova d’amore.
Un’eclissi al buio, le pareti della macchina spenta al lato della strada che ha addormentato la sua notte e il suo sogno. Il cielo e le stelle erano di un unico colore spento. Lui non era in nessun luogo in nessun momento e il mondo continuava a girare. Il sole sorgeva e tramontava lo stesso. C’era il passato, e c’era il futuro. Lui era fuggito come da promesse. La viaggiatrice lo ha cercato, era quello di una notte fa, quello di una vita fa, quello di un sogno fa, e un sogno è rimasto, pur sapendo. Urlando.

G_

In silenzio


Quella sera aveva preso lo zaino, messo dentro uno slip, la t-shirt con la bambola gialla, poi si era infilata il suo paio di jeans preferiti, aveva messo in bocca una vivident ed era uscita.
Cercando di fare il più silenziosamente possibile, era salita in macchina con la velocità di un gatto, aveva messo su una playlist tirata giù apposta per quel viaggio.
Correva da lui.
Chi è lui.
Lui. Un poeta, si diceva, un musicista… Gli avrebbe chiesto di suonare per lei… Gli avrebbe sussurrato “Stanotte non vado via…”
Mentre schiacciava l’acceleratore iniziava a pensare al suo volto, a come sarebbe stato vedersi… toccarsi… Si… voleva toccarlo, voleva accarezzarlo, assicurarsi che fosse vero…
Lui esisteva? Si domandava… poi accendeva una sigaretta, poi tirava due boccate, tirava su e giù il finestrino, con fare nervoso e preoccupato. Poi sospirava. Sorrideva. Diceva: “Sto facendo una delle cazzate più grosse della mia vita, e non me ne frega un cazzo”
Si, forse era felice, come mai da tanto, troppo ormai.
Era sicura di volerlo trovare, di volerlo cercare per tutta la città se fosse stato necessario, avrebbe urlato il suo nome, o chiesto a dei ragazzi ubriachi sotto casa sua…
Moriva dalla voglia di farci l’amore, e allo stesso tempo aveva paura. Paura che non fosse lui, paura che entrambi avessero sognato, avessero preso una di quelle botte di testa per colpa della solitudine e dell’incomprensione mistica che si diffondeva in quei giorni.
Sarebbe ripartita di lì a poco e non si sarebbe mai perdonata di non averlo visto… così… a due passi l’uno dall’altra e si sarebbero persi senza sapere, senza aver visto…
Voleva toccare il suo viso, tenerlo tra le mani, sentire la sua voce, incuriosita aveva continuato a domandarsi, a chiedersi, in quelle notti insonni, che voce avesse.
Voleva stringerlo, tenerlo con sé sul suo cuore, solo una notte. In silenzio anche, o con della musica, mentre lo avrebbe guardato addormentarsi, col cuore urlante e straboccante di follia e di entusiasmo.
Si. Quel frizzante, le bolle della vita; quelle mancavano. E lui per lei era tutto questo. Era un tonfo senza perché al cuore, un tuffo in mare aperto, da un’alta scogliera, guardare il sole e aprire gli occhi. Lei voleva la favola. E forse lui non lo era nemmeno la sua favola, ma lei non curante di tutto ciò che sarebbe stato, sentiva solo per la prima volta i battiti del suo cuore.
Aveva urlato fuori dal finestrino in autostrada… il suo nome… Lui l’aspettava, lo sentiva. Ma moriva dalla voglia di vedere il suo volto… sulle scale della sua casa, sulla porta.
Con occhi lucidi e semichiusi… si avvicinava a quel momento.


E una mattina all’improvviso, come dopo essersi destata da un sogno di bambina… si era svegliata con lui. Lui le teneva la mano, le accarezzava i capelli.
Un ricongiungimento astrale. Gli universi paralleli si erano incontrati. Più volte… e poi i terremoti e poi gli uragani, e poi i colori delle piogge autunnali, l’arcobaleno che non andava mai via, e i colori sciolti dentro di loro… un tocco, le labbra sfiorate e poi l’urto e lo scontro… la violenza del pianto e del sorriso, il sole e la luna finalmente nello stesso punto del cielo.
Un’eclissi al buio, un’infinità di elettricità in una stanza senza pareti… Il cielo e le stelle erano di un unico e accecante colore… Lui era dentro di lei e il mondo aveva smesso di girare… Il sole sorgeva e tramontava mille volte con lei e lui non voleva più tornare indietro. Non inseguiva più il passato. La cercava, era quella di una notte fa, quella di una vita fa, quella di un sogno fa… Lei… senza sapere. In silenzio.

C_

Al tavolo da Poker


Quando sei al tavolo da poker e, al secondo giro di mano
non hai ancora capito chi è il cretino,
vuol dire che il cretino sei tu.

Io non ho capito.
G_

Inenarrabile


Oggi ho fatto orario da "funzionario statale”: 10,30 - 15,00.
Per i miei colleghi nulla di nuovo. Le belle giornate e l’aria primaverile iniziano a svuotare gli uffici, e ad annebbiare le menti. Tutti bravi a lamentarsi del proprio lavoro, ma nessuno che scende più in piazza ad agitare bandiere rosse.
In mensa eravamo io, il tecnico del server e Lelio Grappucci (quello che sembra del KGB). Dopo pranzo sono tornato nella mia stanza per fumare un paio di sigarette, stranamente visto che non fumo mai prima delle cinquemezza, e il tecnico del server si è messo a giocare un po' al solitario di Windows. Per evitare di sentirmi troppo come il tecnico del server, anche perchè non ho server, me ne sono tornato a casa mia.
Tanto a casa mia faccio le stesse cose che farei in ufficio e magari mi corico anche un po' sul letto accanto al PC (Personal Computer, non Partito Comunista) e mi fumo delle sigarette leggermente più profumate.
Tuttosommato il riposino pomeridiano l’ho sempre trovato un costume da zagabroni (non esiste questo termine), ma in questi giorni mi va proprio di sdraiarmi mezz’ora sul letto dopo pranzo. Possibilmente da solo.
Da piccolo, e anche un po' da giovanotto, oltre a detestare il sonnellino pomeridiano, ho sempre sofferto spesso del fatto che la gente non capisse bene se scherzavo o se "dici davvero?!" In realtà, non lo capisco bene neanche io (scontato no!?). E allora mi trovavo in situazioni paradossali che, se scherzavo quelli se la prendevano veramente, e, se invece non scherzavo affatto, quelle non me la davano comunque.
Ora invece solo caos, scioperi, assenteismo, lassismo diffuso. Non c’è più luce. Magari iniziasse a piovere veramente forte fino a tutto il finesettimana compreso. Mi concentrerei per scrivere cose un po’ meglio, magari scrivo una mail a qualche amica lontana, che da un po’ sono scomparso dalla rete, non aggiorno il Blog, non accedo al messenger, non spammo su facebook, non cago nessuno… niente di niente che riguardi i terzi. Oppure mi dedicherei a suonare la chitarra, la suono da vent'anni, basta, non vi pare!? Magari invece andrei un po' sul messenger e scaricherei dei film e della musica da IDC++. Con la pioggia forte forte farei queste cose più leggerine e alla fine chiamerei qualcuno chiedendogli di passare da casa mia facendogli ampiamente capire che se viene si fuma bene. E berrei un po' di Grappa di Falangina se facesse un po’ più freddo. E quando fa freddo fa troppo freddo, e quando fa caldo fa troppo caldo, e quando fa tiepido, fa troppo tiepido. Che condanna essere delle persone e avere delle idee.
Forse di grappa avrei dovuto comprare quella di Moscato per emulare appieno il Presidente che avevo anni fa, ma l'ultima volta che ho emulato qualcuno mi sono sentito troppo idiota.
Quel presidente li mi era piaciuto subito, da quando una volta che era venuto al master a fare un seminario sull'AgroalimentareItaloEmilianComunista ho notato che era sporco, disordinato e puzzolente.
Non che mi piacciano quelli sporchi disordinati e puzzolenti, ma mi piaceva l’idea che ripetesse in continuazione il termine "inenarrabile" per ogni cosa che descriveva; era lui ad emulare me.
Mi piacciono quelli che dicono "inenarrabile". La prima volta lo sentii dire al mio amico Daniele Esposito. Daniele Esposito, in arte Gigasex, mio caro amico, dottore in filosofia, una volta, parlando dinonsocchè, pronunciò la parola "inenarrabile", accompagnandola, per enfatizzare l'inenarrabilità appunto, con un gesto della mano chiusa a paletta davanti a sé disegnando un immaginario semicerchio quasi a pennellare un inesistente muro. Risi ore.
Iniziavo a provarci gusto a spingermi la mattina da vialeetiopiasedici fino a viaguattaninove da quando qualcun'altro, oltre me, pronunciava spesso il termine "inenarrabile".
A questo punto mi verrebbe da dire delle cose auliche e poetiche, con un po' di pulp e parolacce che non guastano mai nel mezzo. Ma mi astengo. Per mille motivi. Uno di questi è che non riesco più a concentrarmi. Che aridità.
Ora con le forbicette che uso per l’erba ho decorato a bonsai una cimetta, e il resto me lo sono fumato. Mentre faccio questo rileggo tutto e penso che sarebbe carino postarlo.

G_