Deliri scritti male ventiquattro


ANCHE IL GIORNO, TALVOLTA, MI FA PAURA.

Il grigio acceso degli scenari che costeggiano ogni corsa in treno alle sette del mattino, quando l’anno è iniziato da appena pochi mesi, subisce il giusto ridimensionamento del sole. Si rischia di perdere l’armonia del susseguirsi dei colori. I viaggiatori sono tutti accecati.
Più che per l’intensità dei raggi, i loro occhi stanchi sembrano stizziti dalla scarsa resistenza, dovuta all’ora in cui si sono trovati costretti a salire sull’affaticato convoglio, che, con la stessa sfocatezza, cerca di accontentare ognuno, per quanto possibile. Il treno è cinico. Non fa nulla con adeguatezza. Ogni rumore è amplificato, e serve ad appesantire ancora di più gli odori di menta e caffè che si mescolano dentro e fuori ognuno di loro. L’aria in poco tempo diventa fitta e nauseabonda; tutto è estremamente sincero. Il treno ha pietà di loro solo quando la corsa si fa costante e liscia, tanto da sentire superfluo l’attrito con il terreno, tanto che il dormiveglia è governato dalla speranza che si allontani la prossima fermata.
Lo scenario, fuori, si fa sempre più interessante all’aumentare della lucidità dei passeggeri più esperti. Hanno capito come dare un valore all’esattezza dei colori, seguendo, paralleli, le geometrie cromatiche più interessanti. Sfide continue tra luminosità e buio, lentezza e velocità, sonno e veglia, alternanza continua di ampiezza e claustrofobia, di torpore e vigore; ogni trasformazione dà nuovi odori, fittizi, impercettibili, rapiti, vengono sostituiti dalla scia di giornale che l’impiegato aggiuntosi all’ultima fermata, incontentabile nella scelta del posto, ha lasciato. Regalo indesiderato, poiché ricorda il dovere.
Gli unici suoni riconoscibili, in lontananza, che accompagnano quelli tipici della corsa, sono le voci lucide di un gruppetto di controllori, legittimamente a riposo sulle poltrone che, pensiamo, non possano essere utilizzate anche da loro. Forse, in un altro momento, in cui gli occhi dei viaggiatori si fanno più vigili e critici, avrebbero scelto un’altra postazione, più riservata, per chiacchierare, prima della fine del loro turno di lavoro. Tutti con parlate differenti, i funzionari portano avanti dei chiarissimi commenti, circa, non si sa cosa, iniziati, chissà quando. In tale ambiente narcotizzato, sembra che ci siano sempre stati e che abbiano sempre parlato e, probabilmente, dicono la stessa cosa da tempo, a ripetizione, tipo il nastro della voce che annuncia le fermate in stazione, che inizi a credere che è un nastro registrato molto dopo aver smesso di credere alle favole. È facile assistere ad accesi dibattiti tra gente convinta che ci sia un qualche pover uomo, in qualche cunicolo delle pensiline sui binari, che scandisce notizie inutili o spesso scostanti, e quelli invece, che, con aria ragionevolmente superba e distaccata, chiariscono che le informazioni vengono pre-registrate.
È probabile che sia un’attrattiva, è probabile che non siano neanche dei controllori quelli seduti in quel vagone; a tratti qualcuno presta attenzione a quello che si dicono, ma la curiosità di approfondire le poche informazioni recepite viene immediatamente distratta dal dormiveglia.
Eppure il discorrere è singolare.
Cont. 1) – …oggi mi sento ancora sottopressione. Non focalizzo ancora gli eventi che ieri mi hanno spinto a seguire il mio istinto donante la pazzia. Sento che sto preparando la vendetta; sto cercando di rafforzarmi, levigo la mente col metallo proveniente da altri organi del mio corpo. Sento come dover ancora nascere, non mi sento bene. Avverto l’inutilità di una vita che se ne va, e sento le interiora di quel poveretto collassate sotto l’acciaio bruciato di questi posti qui tanto strani.
Cont. 2) – Io invece sento i flussi di fosforo al cervello, percorrono le ancestrali censure impartitemi da quelli che sono migliori di me.
Cont. 1) – Sai, li sento i tuoi getti di fosforo! Cercano di muoverti verso il cinismo!?
Cont. 2) – Sono cinico per ciò che è accaduto a quello che è finito sotto il treno l’altra mattina. Sono cinico per ciò che è accaduto a me contemporaneamente, mentre aspettavamo tutto quel tempo, lì, fermi sui binari, in aperta campagna. Sul momento, tanto dolore, ma ormai, ho imparato, si, credo di aver imparato a non soffrire…lo credi anche tu?
Cont. 1) – No, non ho pietà di lui. Non ho pietà neanche di te…tu osi troppo con la tua coscienza, vedrai che un giorno capirai ciò che ti dico…non si tratta di cinismo…forse era già morto, forse era un angelo, l’angelo cattivo proposto dai sogni in dormiveglia di quando non sono stanco, ma annoiato, e dormo per questo.
Sempre più cadenzato e sconnesso, il dialogo assume un comportamento fittizio. Quasi si possono udire i deliri destati dalla profondità del sonno di un giovane, che si agita al suo posto, da solo. Non si dà pace, dorme e sogna, forse è l’unico, forse sogna proprio perché è giovane. “ – Come possono parlare in questo modo, come possono esprimere tanto disinteresse per la vita, come possono essere tanto colti…non ho sentito nulla circa incidenti di questo genere ultimamente…non ne accadono da tempo ormai. Non sono i controllori, è a tavola che si parla così, è mio padre, probabilmente è lui che parla…è lui ad essere in fissa col cinismo e l’educazione, la coscienza e le verità che non sono ancora pronto a cogliere. Ma stranamente non vedo il blu delle mie mura, non sento l’odore delle mie piante e le solite urla del vicinato…farei meglio a tranquillizzarmi. Mi ronza ancora in testa ciò che mi ha detto lei…era cattivissima, e ora chi lo dice agli amici, chi lo dirà a tutti, non mi va di tradire tutta quell’invidia nei miei confronti, non mi va di aggiornare nuovamente le notizie circa me. Come faccio a descrivere quegli occhi, come posso spiegarlo. Ecco, vediamo, se provassi a immaginarli ci riuscirei, se cerco di provare ancora quelle sensazioni di quella notte potrei dire che gli occhi che mi hanno ucciso erano semichiusi. Semichiusi e castani, mi hanno privato del lieto fine, hanno trasformato tutto in delirio; non brillavano di pace, ma di lacrime, di cui non m’importava, non erano lacrime versate per me. Per quale ragione non mi preoccupano le lacrime, se non quelle versate per me. È evidente che l’ho fatto per vedere davvero quanta gente sarebbe pronta a ridere o a piangere per me; ma ora, che è tutto confuso e spento, che risposte mi do? Che finale devo imprimere alla mia storia? Quali conclusioni, ora che mi rendo conto che non avverto nulla? Erano le lacrime che mi imponevano l’abbandono dei miei tentativi di ristabilirmi all’interno di quella situazione che mi dava tanta serenità. Sono parallelo. Chiaramente vedo la soluzione del problema. Il problema non è dirlo, convincere che tanto fa lo stesso, il problema certamente non è tutta quell’odissea passata in una nottata di ubriachezza e amore, il problema sta negli spasmi del mio corpo che inducono stridio di denti, sta ancora nell’inebriante dolore delle ossa contorte in queste posizioni assurde che sto assumendo, il problema sta nel convincermi che ho soltanto allungato una piacevole agonia interiore, per lasciare ingrato spazio al pianto del corpo…ridatemi il mio corpo, non lo farò mai più; non provate pietà per me, è giusto ciò che dite, ma non fatelo udire a tutti. Che nessuno sappia! Come è potuto accadere? Non riesco a credere che un evento tanto irrilevante abbia potuto distorcere la mia percezione e comandarmi il suicidio. Non credo ai buoni uomini in divisa, non credo neanche a tali voci che chiamano il mio nome, non credo a lei che ora mi scongiura di pensare che era soltanto, tutto, frutto di un temporaneo stordimento. Non mi fate credere che sia proprio il momento, non tentate di portarmi a pensare che mi sto risvegliando, solo perché ho tanto sonno, e i fischi del simpatico convoglio stanno superando l’intensità dei miei pensieri…non pensate. Credete solo in quello che vi descrivo, quello che vi dico è solo la verità; vi posso spiegare con lucidità ciò che mi spinge a non sentirmi ancora del tutto sveglio, sto perdendo le coordinate di ciò mi sta intorno, non riconosco più i dettagli; non ho voglia d’indossare il mio solito soprabito, è troppo faticoso avvolgere la sciarpa così come faccio io. Poi toccherà ai guanti e dopo il freddo non avrà pietà di me e della mia dimenticanza. Ho dimenticato il copricapo, non ho nulla per coprirmi la testa…non ho nulla per difendermi da lei. Mi duole il capo; mi chiedo se ne ho mai avuto uno. Cambio di espressione, eppure penso di avere sempre la stessa. I miei sforzi sono vani. Non riesco a tastare il velluto, mi dà una strana sensazione d’inquietudine mattutina. Ricordo che quand’ero piccolo non riuscivo neanche ad indossarlo ché mi faceva sentire come se mi fossi fatto la pipì addosso. Temo la notte. Anche il giorno, talvolta, mi fa paura, ma certamente molto meno. Non per la luce che manca, ma perché di giorno divento stupido…mi colpisce la mia stupidità, ma godo dei suoi frutti, mi ricalca serenità, non il pensiero. Spesso, invece, ho paura degli escrementi; ne ho il timore poiché so che la loro visione potrebbe darmi nausea. È bella però questa paura, perché è incerta, enigmatica, espressa da verbi al condizionale. Non mi svegliate, per pietà, è tutto così incerto qui! Non mi svegliate, il biglietto è nel taschino della mia borsa se volete verificare la liceità della mia condizione di passeggero di questo treno. Parlate pure, ma lasciatemi smaltire la sbronza “.

1 commento:

Anonimo ha detto...

E di preciso cos'è che avevi bevuto?