La mattina del 25 maggio del ’95


La mattina del 25 maggio del ’95, riflettendo che da lì a quattro giorni sarebbe stato il mio compleanno, io e il mio fedele compagno di banco delle superiori a seguito di una veloce consultazione decidemmo che era quella l’occasione per farmi regalare da tutti i compagni di classe una bella chitarra acustica amplificata per il nostro gruppetto musicale.
Il gruppetto non era niente male, era semplicemente pessimo, ma la chitarra acustica ci serviva comunque per registrare e anche per soddisfare la sterile abitudine dell’uomo ad attaccarsi ai beni perituri di questo mondo.
La ragionieristica in quel caso era semplice: la mia classe era formata da 25 elementi, tolti me e Massimo, e qualche altro bastardo che si sarebbe rifiutato di farmi il regalo perché mi considerava a sua volta un bastardo, avremmo potuto contare su circa un duecentomila lire, senza neanche attingere dal mondo esterno e sconosciuto. Quella bella Ibanez nera che era in vetrina al negozietto accanto alla scuola stava per diventare mia. Senza troppi sforzi.
Già immaginavo il nuovissimo liuto nero a fare coppia con la già mia Yamaha rossa, ricevuta in dono dai miei qualche anno prima. Pensai che dovevo affrettarmi a comprare anche un altro poggiachitarra che potesse ospitare la nuova Ibanez in tutta la sua nerezza.
Neanche a farlo apposta quel giorno stesso mia madre mi chiese se volessi dare una piccola festa a casa.
“Luca, perché non inviti i tuoi compagni di scuola venerdì per festeggiare il tuo compleanno?”.
“Mamma, il mio compleanno è giovedì non venerdì”.
“Eh, sì, non ti fissare con sti dettagli!”
“Sti dettagli, mamma..!?”
“Vabbè comunque se ti va dimmelo per tempo così preparo dei panini, una teglia di pizzette, mando tuo padre a comprare aranciata e cocacola”.
Panini, pizzette, cocacola e aranciata? Vabbè… in ogni caso cedetti alla richiesta. La festa si faceva giovedì tanto in assenza di alcool il giorno dopo si poteva andare tranquillamente a scuola. Sì, e io avrei parlato della mia nuovissima Ibanez con tutti.
“Max, ma se la comprassimo prima?”
“Cosa?”
“Massimo, la chitarra, l’Ibanez.. come cosa!?”
“Quale Ibanez, Vecchio, cosa stai dicendo?”
“Sei veramente coglione!, l’Ibanez che dobbiamo “regalarmi” per il mio compleanno, ieri ne abbiamo parlato!”
“Scccch, non urlare, se no ci sentono”
“E ho capito non urlare; tu non ti dimenticare di tutto!”.
“Ragazzi, chi è che parla lì dietro… a chi è che non interessa la lezione su Seneca? Chi devo mandare a fare due chiacchiere dal Preside?...”
Sono sicuro che in assenza di soggezione si sarebbero alzati in venticinque per scappare via dalla lezione di letteratura latina. Ma tutti tacquero. Compresi me e Massimo.
“Vecchio, renditi conto che è una cazzata comprarla prima…”
“Ma chi ti ha dato i soldi finora?”
“Ancora nessuno… ma fidati, non ti preoccupare che tra oggi e domani li raccolgo tutti, ma tu già da oggi invita gli altri alla festa”.
“Ok ok.. ora scrivo un bigliettino e lo faccio girare tra i banchi mentre questa strana signora bionda chiacchiera di Senegal… ahah!”
“Ahaha, Seneca, Senegal…”

***
Il bigliettino iniziò a girare quel giorno stesso, all’ora di letteratura latina, a quella di chimica, a quelle di matematica no. E pollici in su si elevavano verso di me, verso la direzione in cui era il mio banco con me raggomitolato a testa bassa come sempre per simulare l’assenza. La “presenza assente”, era questo il mio modo di stare in classe al liceo.
Tutti a dire che era ok… col sorriso da hostess le femminucce, o quelle che dovevano essere delle femminucce, e ghigno appena accennato i maschietti, o quello che restava di quei puzzolenti segaioli.
Tutti a fare di sì col pollice alzato. Ventiquattro piccoli Arthur Fonzarelli, Ehy!
Rossella si era persino avvicinata al mio banco al cambio dell’ora chiedendomi:
“Vecchio che bello fai la festa giovedì.. posso portare anche Daniele?”
“Certo, come no, sono diecimila lire in più!”
“Vecchio certe volte sei proprio deficiente…”
Tuttavia alle 14.00, perché noi al liceo uscivamo tutti i giorni alle due, e non si sa perché non facevamo neanche ricreazione, quelli di fuoripaese disdissero l’impegno preso col pollice in su. Legittimati, erano a qualche chilometro da casa mia, senza macchina né moto, avrebbero dovuto rompere il coglioni ai genitori, che poi dovevano tornare a prenderli… poco male, dai una cinquantina di milalire in meno, come previsto. Massimo, che stratega quel mio amico.
Poi però, forse sarà stato il calo di zuccheri e la stanchezza accumulata per sei ore di farnulla in classe, ma anche altri m’inseguirono quasi fin sotto casa balbettando emmh ed eeehh “il mio ragazzo”, “mia zia”, “mia madre”, “interrogazione di storia”, “compito in classe di matematica”… ma venerdi abbiamo educazione fisica disegno e religione!
Non ho mai capito perché chiamiamo l’ora di religione “ora di religione”. Dovremmo chiamarla “ora di bigotteria”. Una volta durante l’ora di religione parlammo di cazzi e fiche. Ma ne parlammo in maniera innaturale, come se nessuno fosse dotato né di cazzi, né tantopiù di fiche.
Vabbè, in somma, forse dovevamo rettificare il tiro verso la Squire da centomila lire e abbandonare a malincuore l’idea dell’Ibanez nera.
“Oppure facciamo che io ci metto una cinquantamila lire che mi faccio dare dai miei e compriamo l’Ibanez sunburst da centocinquanta”.
“Centocinquanta cosa, Vecchio?”
“Se vabbè, Massimo, vaffanculo”.
Il budget a disposizione stentava ad avvicinarsi a quello sperato. Bisognava estendere l’invito a quelli delle altre classi.
“Chi? Gianluca Vecchio? Quel pezzo di merda!? Col cazzo che vengo alla sua festa!”. È stata pressocchè e in termini estremamente succinti la sensibilità comune nelle altre classi. Ero un ragazzino detestato.

***
Alla sera del 30 maggio 1995 mia madre aveva preparato l'iradiddio delle prelibatezze: panini, focacce, pizze, pizzette, dolci, tartine, tramezzini e quant’altro di peculiare delle festicciole tra ragazzini di quell'età.
Io avevo preparato le stanze per l'occasione: avevo messo in bellamostra la mia chitarra elettrica e pure quella classica; avevo incolonnato i CD di cui andavo più orgoglioso e i libri che non leggevo.
Mentre facevo tutto questo pensai che i miei compagni non sapevano nulla di me. Non conoscevano le mie passioni, i miei dolori, i miei oggetti, le mie capacità e neppure i miei limiti. Loro buttavano tutto questo complesso umano in un enorme e informe calderone di pregiudizi che dava la certezza a sentirsi superiori e consapevoli della persona che tutti i giorni avevano davanti, o dietro a quei banchi umidi e segnati dai colpi di panno delle bidelle.
Ricordo che m’incazzavo tantissimo perché ogni mattina i banchi erano sempre sporchi, ma non perché le bidelle non avessero fatto il loro dovere, ma perché lo avevano fatto male! Ed era come se non l'avessero fatto proprio perché pulivano i banchi con lo stesso straccio con cui prima avevano pulito la lavagna sporca di gesso. Quindi toglievano il gesso dalla lavagna e lo ricollocavano su tutti i banchi. Tranne che sulla cattedra, perché forse pulivano in successione prima la cattedra, poi la lavagna e infine i banchi. E allora noi tutti ipotizzavamo che facevano questo per fare bella figura con i professori e per fare un dispetto a noi ragazzi.

***
Alle ventietrenta di quel trentamaggio del 1995 a casa mia erano previste una trentina di persone e una chitarra acustica Ibanez nerissima e invece fino alle undici della sera rimanemmo intorno ad un tavolino sul balcone che dà su via Parini solo io, Massimo e Alessandro, un altro fedelissimo compagno e amico. Diciamo però che questa situazione non era propriamente una novità perché a prescindere dalla festa loro due ci sarebbero comunque stati a casa mia, come tutti i giorni.
Ciò che invece risultava strano era la presenza di tutto quel cibo da festicciole tristi sui tavoli in soggiorno e la mancanza di una Ibanez nera.
Gli altri miei compagni non vennero alla mia festa per quei pregiudizi di cui sopra e perchè fondamentalmente non gliene fregava un cazzo. Questo lo capii dal momento che, abitando io in pieno centro al mio paese, ne vidi passare alcuni per strada, anche abbastanza annoiati per la serata priva di iniziative, “…la solita serata infrasettimanale paesana, ci andiamo a prendere il panino alla Griglia da Piero?”.
“Ragazzi, ma non vi sembrano Rossella e Daniele quei due sul motorino?”
“Vero Vecchio, sono loro…”
“Ma Rossella mi aveva anche chiesto se potevano venire insieme…”
“Sì, e tu le hai detto che potevano passare in cassa a pagare”
“E vabbè ma era una battuta”
“Vecchio, per una battuta le persone si offendono”
“...”
“Moltiplicale per 25…”

***
Per me, Massimo e Alessandro invece non ci fu bisogno di spendere dei soldi e intossicarci in paninoteca, e non ci fu neanche bisogno di offenderci per le battute altrui”
Ricordo anche che la mia famiglia si assentò inspiegabilmente. Nessuno aveva il coraggio di venire a vedere come stavo, né di farsi un giro nell’areato soggiorno in cui ero con i miei due amici. Non perchè se ne dispiacevano troppo e non potevano sopportare vedermi triste, ma perchè non si sarebbero trattenuti dal ridere nel vedere quella imbarazzante situazione. Ebbi l'impressione di essere rimasto da solo. E da quel momento in poi quella sensazione non mi ha più abbandonato.
Ora, dopo tredici anni da quel 30 maggio de ‘95, penso che quando sei solo hai un mucchio di vantaggi; vero è che non devo fare file, non devi avvisare nessuno e non trovo mai il bagno occupato.
E ora mi godo la mia solitudine, identica a quella di tredici anni fa. Ho soltanto qualche chitarra in più da mostrare nella mia stanza; la mia Ibanez nera me la sono comprata. Io, sempre da solo.

G_

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Almeno si impara a non aspettarsi più nulla da nessuno...
così qualsiasi cosa si riceve... diventa un dono. O almeno così dovrebbe essere, in teoria...

Comunque, anche se in "lieve" ritardo..., Tanti Auguri!!

vale

Anonimo ha detto...

Tristissimo...
(però Rossella e quelli delle altre classi erano proprio dei geni...)