Non sono credente (parte 1)

1.
Non sono credente, cattolico, praticante, o come diavolo si dice per definire uno che non entra nelle chiese per prendere parte alle tradizionali funzioni della religione cattolica. Entro nelle chiese in altre occasioni. Per altri motivi. Oggi per esempio sono stato attirato dall’oscurità di una chiesa. Una di quelle chiese pressate tra i vicoli del centro, che quando cammini ti accorgi che c’è una chiesa solo perché senti fortissimo l’odore dell’incenso, o perché al massimo leggi il cartello che riporta il secolo a cui risale la chiesa di cui non ti eri accorto.
Sono entrato e ho fatto come quelli che entrano per una di quelle ragioni di cui parlavo prima (credenti, praticanti, cattolici). Mi sono seduto in un posto a caso sulla fila di banchi di sinistra . Prima di sedermi ho un po’ osservato la volta della chiesa. Per un attimo l’ho trovata molto bella. Ma quello che mi ha continuato ad attirare è stata quell’oscurità e quell’odore fortissimo d’incenso.
Io sono una di quelle persone che non sono simpatiche ai parroci. Questo perchè entro nelle chiese senza fare il segno della croce; passo davanti all’altare senza inchino; visito le chiese durante le funzioni. Insomma: faccio solo cose di buonsenso.
I parroci odiano quelli come me perché non riescono ad avere la giusta e massima autorità a cui sono abituati. Quelli come me hanno un rapporto con le chiese molto vicino alla realtà. Ciò ai parroci urta molto.
Oggi, in quella chiesa, prima di sedermi sono stato spaventato dalla presenza di un uomo: un parroco appunto, che nell’ombra assolveva ai suoi incarichi di pastore controllore delle anime che, incuriosite, entravano nella chiesa. Io ero stanco e un po’ influenzato, così, contrariamente a quanto avviene solitamente che mi faccio i fatti miei, oggi mi sono lasciato intimorire dalla presenza sinistra di un parroco in una chiesa. Parroco indagatore. I parroci sono i soldati della chiesa. I soldati che mettono in pratica la bieca pratica dell’appiattimento culturale e dell'elusione dell’iniziativa intellettuale: pratiche e qualità che creano dei problemi per chi ha deciso di rappresentare “il meglio nel mondo”.
Ho abbandonato la chiesa senza pregare. Senza sforzarmi di pregare. Mi ero accomodato col fortissimo intento di ricercare qualcosa che potesse aiutarmi a ritrovare il mio fascino. Il mio fascino con le persone. In generale. Non nel senso che non si tromba più. Anche quello magari. Il fascino intendo: il mio nei confronti del mondo e quello del mondo per me.
Mi sono accomodato su uno dei banchi e forse ho sperato che tali illuminazioni e tali soluzioni dovessero provenirmi dal cielo. O dall’alto. O dalla croce. Da qualsiasi cosa di maledettamente santo. Ho creduto che ciò che dovevo attenermi a fare fosse semplicemente aspettare. Quello che ho fatto è stato osservare l’architettura della chiesa, l’odore, le sfumature, le persone che entravano e uscivano, il prete nell’angolo. Ho pensato solo agli altri intorno. Quello invece doveva essere il mio momento. Dovevo essere io a parlare agli altri, non gli altri a me. Avrei dovuto interrompere per degli attimi, o dei minuti, magari, le frequenti pratiche di osservazione della realtà ché tanto finiscono sempre con l’essere abbastanza infruttuose. Si fermano a sterili descrizioni. Talvolta carine. Ma solo descrizioni. E la soluzione? La soluzione dove la trovo se continuo a guardare gli altri e dannarmi? Dove posso sperare di ritrovare le mie variabili di inutilità e tramutarle in azioni concrete per ottenere quello che voglio? Ma non è nemmeno questo! Quando mi fermerò a pensare a quello che mi manca, quello che voglio, quello che ho dimenticato, ciò che non ho ancora dimenticato?
[...]

Nessun commento: