Guido Guidaccio (Emidio) - Parte Prima


Con Nello attendevamo l’arrivo di un qualsiasi mezzo per Porta Maggiore e accomiatarci verso i nostri quartieri, ben lontani dalla bettola che aveva accolto i nostri sfoghi e i nostri vizi quella sera. Così, dopo quattro bottiglie del vino della casa svuotate in meno di un’ora e un sovrabbondante piatto di tonnarelli cacio e pepe, le chiacchiere davanti alla taverna si erano protratte oltremodo, tanto da far scattare l’ora fatidica delle inconsapevolezze.
I primi dieci minuti alla fermata non era accaduto nulla e in più Nello iniziava disturbarmi oltremodo per il suo continuo via vai sulla banchina della fermata, a blaterare cose incomprensibili e a infastidire chiunque passasse di là in quel momento. Distratto dal continuo svanire del mio compagno, me ne stavo appartato appoggiato ad una transenna sul lato del vialone finchè tra i suoni fittizi della sbronza, si facevano largo quelli chiari della voce grave di Nello che aveva attaccato finalmente per lui conversazione con qualcuno.
Strepitoso!, non avevo notato fino a quel momento uno dei personaggi più farseschi che Roma potesse presentare. L’aveva scoperto Nello in quel momento, e lui se lo stava godendo con vaneggiamenti inesatti e osservazioni fuori luogo tipiche.
Assomigliava a Jonny Winter. Aveva dei lunghi capelli grigi e il viso magro. Gli occhiali sul naso erano integri da un lato e completamente distrutti dall’altro, tanto che la lente aveva preso la stessa incrinatura della montatura. Sembravano quelli dei cartoni animati. Pareva poi che il freddo l’avesse costretto a indossare tutti gli indumenti del guardaroba. Portava un completo elegante, che per il ripetuto utilizzo aveva perso quella qualità. La cravatta gialla e una canottiera grigiasta. Sopra ancora un soprabito grigio, normale e, sopra tutto, infine, un’altra giacca dello stesso colore della prima. A legittimare tutto nella sua stranezza una larga macchia rossa spalmata su ogni parte. Ignoro cosa fosse.
Il simpatico blue’s man chiacchierava di chissà cosa, parlava di suo figlio, del fatto che vivesse in uno degli appartamenti di quella strada.
Ci ritrovavamo dopo poco ad urlare fortissimo il nome di Claudio. Claudio doveva essere il presunto figlio del simpatico vecchietto. Ad ogni modo Claudio si era affacciato realmente dalla finestra ripetendo ad alta voce tutto ciò che urlavamo noi. Potevamo dire qualsiasi sorta di idiozia che lui la ripeteva, a voce un po’ più alta.
Intanto il primo notturno ci sfrecciava velocissimo davanti, e provavo ad immaginare cosa potesse sembrare dal di fuori: tre perfetti dementi. La demenza si era dopo poco trasformata in insana filosofia da strada. Nello pronunciava male le parole per esprimere concetti del tutto inutili. Io ridevo e basta. Il nostro amico non faceva altro che ripetere che doveva andare da un suo amico artista, pittore di nome Guido Guidaccio. Anche Claudio pareva conoscere molto bene Guido Guidaccio. Cotale artista doveva presumibilmente trovarsi in un locale in Trastevere, il Lettere e Caffè, in cui il padre di Claudio voleva trascinarci. Ma questo non ha importanza. Ciò che è importante è che in quel tergiversare inesatto un altro mezzo notturno non si accorgeva di noi, e ci passava davanti perentorio. Severo.
Quando ero piccolo i miei per farmi stare buono mi dicevano che avevano un figlio che tenevano nascosto di nome Claudio. – Il mio sogno, dissi a quell’uomo iniziando ad incamminarci a piedi verso il Lettere e Caffè, è sempre stato avere un monolocale a Trastevere.
Con voce trascinata e schiacciata lui mi rispondeva:
- Te voi puntà in arto se voi ‘na casa a Trastevere. Io cè vivo dar dopo guera, prima ce vivevano li poveracci, nno com’a mmo che cce vive a gente per bene. Perché so commerciaaante.
Un rum e pera, poi altri. Diversi rum e pera. Il succo di pera del lettere e caffè è davvero buono. È denso al punto giusto. Nello era sparito. Io ero completamente ubriaco.
Buio.
[…]

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