Passeggiata di primavera - di Davide Fanigliulo [005]

Una bellissima mattina di aprile, un alto e robusto quarantenne uscì di casa per la sua solita passeggiata; il sole già caldo e il cielo limpido misero subito di buon umore l’uomo, che dimostrava la sua allegria fischiettando felicemente per la via, mentre si incamminava verso il solito parco dove avrebbe letto il solito giornale, avrebbe conversato con i suoi amici delle solite cose e avrebbe augurato la buona giornata a tutti prima di congedarsi e ritornare a casa.
Bisogna dirlo, la giornata era veramente fantastica: non faceva né troppo caldo né troppo freddo, non c’era vento, c’erano gli uccellini che cinguettavano felici e tutti sembravano sorridere, come se a tutti fosse capitata chissà quale fortuna, chissà quale vincita al gioco.
Il nostro uomo stava dunque dirigendosi verso il parco, canticchiando e roteando il suo ombrello come ad accompagnare la melodia, e alzava di continuo lo sguardo al cielo per osservare come le poche e sottili nuvole, circondate da un azzurro infinito e brillante, formassero strane figure e si dissolvessero poi in pochi istanti.
Da questo spettacolo lo distolse all’improvviso un rumore crescente e cupo, come di un tuono lontano, che crebbe improvvisamente, prendendo le forme di una motocicletta che con sorprendente velocità sbucò da un vicolo alla sue spalle e si diresse ad incredibile rapidità contro di lui.
Istintivamente l’uomo, girandosi di scatto per vedere cosa stesse succedendo, si rese conto del pericolo e di riflesso si gettò alla sua sinistra, schiacciandosi contro il muro, e sollevando, come a difendersi, il suo ombrello di ferro e frassino: la velocità e la traiettoria a zig-zag della moto la fece slittare e cadere al suolo, catapultando in aria il motociclista, che dopo un volo rapido di un paio di metri, atterrò esattamente sul nostro uomo, facendosi perforare il collo dalla punta metallica dell’ombrello.
Il robusto quarantenne, grazie alla sua prestanza fisica, non fu a sua volta gettato e terra dall’impatto, ma riuscì invece a mettersi subito in piedi, dritto, lasciando la presa all’ombrello e ritirandosi in dietro di qualche metro.

Dopo qualche secondo di panico e di confusione, l’uomo riprese coscienza della situazione, e davanti a lui si presentò in tutta la sua enormità l’entità del dramma che si era appena consumato: lo sfortunato motociclista era stato trafitto proprio all’altezza del pomo d’Adamo, e nonostante le piccole dimensioni della punta dell’ombrello, la violenza dell’impatto aveva provocato quasi il distacco totale della testa dal tronco, riducendo il collo a brandelli e provocando una copiosissima uscita di sangue.
Quasi certamente era morto sul colpo.

Resosi finalmente conto dell’incredibile vicenda che gli era capitata, l’uomo cedette al terrore e al disgusto per l’immagine che aveva davanti agli occhi, e proruppe in un pianto disperato: questo fece accorrere una gran quantità di persone, che si aggiunsero a quelle arrivate subito dopo l’incidente, attirate dal rumore stridente della schianto della moto.
Tutti quelli si che erano affollati sul luogo della tragedia cominciarono a bisbigliare: prima piano, poi sempre più forte, fino poi a creare un vero e proprio trambusto, con urla di uomini che domandavano cosa fosse successo, e donne, le ultime arrivate, che gridavano e si strappavano i capelli davanti allo spettacolo del corpo straziato del disgraziato motociclista.

Dopo pochi minuti, chiamato chissà da chi, arrivò un poliziotto, e allora tutti fecero silenzio, mentre questo, facendosi largo tra la folla, si dirigeva estremamente convinto verso il nostro uomo, per chiarire tutte le circostanze che avevano portato al quell’incidente e per far luce su di chi fosse la responsabilità dell’accaduto.
Il poliziotto cominciò ad interrogare il nostro uomo, che intanto si era accasciato al suolo, appoggiato ad un muro a lato della strada, vinto dalla disperazione.
-Che è successo?- chiese il poliziotto –Che è successo?
Ma l’uomo, in stato di shock, non rispondeva.
-Mi dica cosa è accaduto!- continuava l’ufficiale, scuotendo l’uomo per le spalle; ma questo non rispondeva: era completamente stordito, quasi assente.
Il poliziotto allora alzò la voce, e chiese nuovamente spiegazioni al povero quarantenne, che però continuava a non rispondere.
Dopo alcuni altri vani tentativi di comunicare con l’uomo, una voce tra la folla, approfittando di un momento di generale silenzio, cominciò a dire, urlando: “È stato lui! È stato l’uomo con l’ombrello! Ha assalito il motociclista e lo ha trafitto con l’ombrello! È un pazzo! Un pazzo!! Con l’ombrello, con l’ombrello!!...” gridava fortissimo; ed alla sua voce, improvvisa come un terremoto, si aggiunse quella di tutti gli altri presenti, che unirono le loro urla in un boato generale in risposta all’accusa, appoggiando però contro ogni logica la tesi dell’oscuro accusatore, ed indicando impietosamente con il dito indice il nostro povero uomo, che scioccato e ancora più confuso si attaccò al muro, spingendo con la schiena e con la testa, come se in quel muro ci fosse voluto entrare, per uscire poi dall’altra parte e scappare via.
Ma ormai lì era l’inferno: tutti, nessuno escluso(neanche il poliziotto), guardavano l’uomo con sguardo di fuoco, come non già ad accusarlo, ma addirittura a condannarlo; si udirono insulti, imprecazioni, bestemmie e minacce; ad un certo punto il nostro uomo fu addirittura colpito alla gamba da un porta-tabacco di metallo lanciato da qualcuno, tra la folla inferocita.
L’uomo era sconvolto, terrorizzato, talmente spaventato da non riuscire a parlare, da non riuscire a difendersi da quelle accuse; ma la sua faccia, stravolta dallo sgomento, ed il suo silenzio, non fecero che accrescere nei presenti la rabbia e la violenza verbale, la quale, ad un certo punto, non si sa come, non si sa perché, divenne violenza fisica: come se un versante intero di una montagna repentinamente si staccasse dalla parete e precipitasse a valle, come se milioni di tonnellate di roccia viva piombassero compatte dal cielo su un villaggio fatto di capanne di paglia, con la stessa inarrestabile forza devastatrice, quello scarso centinaio di comuni signori perbene, quel centinaio di uomini vestiti di tutto punto ed inamidati, scatenarono tutta la loro latente carica assassina sul nostro povero disgraziato quarantenne, che senza avere neanche il tempo di riflettere, e magari reagire, si trovò improvvisamente assalito da una massa informe di mani, piedi, gomiti e ginocchia, che lo cominciarono a percuotere con inaudita violenza su ogni parte del corpo, ferendo qui, rompendo là, slogando dappertutto.
Nel giro di pochi secondi, l’uomo fu preso e trascinato in mezzo alla strada, dove non si sarebbe potuto difendere in alcun modo, e lì fu massacrato di percosse, di calci, di pugni, di colpi di ginocchia sul naso e negli occhi; la furia della folla sembrava non avere limiti, tanto che, ad un certo punto, qualcuno estrasse un coltello e cominciò a colpire l’ormai moribondo quarantenne, ma con fendenti tanto potenti e precisi che, dopo pochi colpi, parte della mano del nostro sfortunato amico, messa a difesa davanti al viso, volò via, tranciata di netto: ad essa seguirono dita dell’altra mano, un occhio spappolato, un labbro portato via, un orecchio tranciato.
Il tutto durò circa dieci minuti.

Ma all’improvviso, così come si era manifestata, la brutalità di quegli uomini scomparve; l’esecuzione si concluse, uomini e donne diedero due colpi di mano sui vestiti per mandare via la polvere, i cappelli furono rimessi sulle teste(quasi tutte calve), e nel giro di pochi secondi in quella strada non c’era più nessuno.
A terra, in una pozza enorme di sangue scuro e grumoso, rimaneva il corpo mutilato e sfigurato del nostro uomo; la testa staccata a lanciata a qualche metro di distanza, non era molto lontana da quella dello sfortunato motociclista, a causa del quale tutta quella vicenda si era verificata.

D.F.

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